5. Battesimo del fuoco48 min read

La valle che si snoda sotto di lui è stretta tra due alte pareti di roccia, come se una ferita frastagliata avesse tagliato in due la montagna. Gli alberi che vi sono cresciuti sono aggrappati al terreno in un equilibrio precario, strappato alla natura da radici ostinate. Ma guardandola attraverso il mirino, tutto ciò che vede è la tortuosa strada che la attraversa sul fondo, proprio sulla sinistra del fiume. Con una mano sul grilletto e l’altra a sostenere la canna del moschetto, punta proprio lì, nel mezzo, dove si agitano mezzi e soldati tedeschi. E spara senza fermarsi, un caricatore dietro l’altro, sei colpi alla volta.

Nella furia assordante dello scontro che lo circonda, mio nonno quasi si stupisce della lucidità con cui riesce ad osservare la scena. Ogni filo d’erba che si agita di fronte al suo viso, ogni granello di terra che sposta coi gomiti, ogni movimento degli uomini sul fondo della valle gli appaiono assolutamente nitidi. Nel mezzo della sua prima battaglia, la sua mente viaggia alta e lontana, soffermandosi ora su un dettaglio ora su un altro, in una dimensione asettica e distaccata, senza tempo.

In realtà non se n’è ancora reso conto, ma ha perso ogni cognizione del suo corpo. Le gambe che ha divaricato dietro di sé sdraiandosi tremano come se fossero sul punto di spezzarsi. La spalla su cui ha appoggiato il fucile viene percossa dal rinculo ogni volta che tira il grilletto. La testa, schiacciata dall’elmetto, sobbalza ad ogni colpo. E la bocca è tirata in una morsa feroce che rischia di spaccargli i denti, da cui esce un gemito monotono e continuo, di animale ferito.

Fortunatamente, lui non sente nulla di tutto questo. L’adrenalina ha avuto pietà di lui e ha preso il sopravvento, portandolo per mano in un luogo sicuro e lontano, da cui può guardare tutto senza paura e senza fretta. La piccola parte di coscienza che rimane aggrappata alla realtà registra con stupore l’assurdità della situazione in cui si trova. Quella mattina si era svegliato, si era vestito, aveva incontrato i suoi uomini e aveva mangiato qualcosa con loro. Avevano scherzato per rompere la tensione, si erano accesi una sigaretta e si erano infine messi in marcia. Tutto pareva simile ad una giornata qualunque, uguale a tante altre che l’avevano preceduta. Faceva caldo, il cielo di fine estate era di un azzurro abbagliante e dalla costa arrivava l’odore del mare. Solo che quel giorno, di loro volontà e con le proprie gambe, sarebbero andati incontro al loro battesimo del fuoco. La sequenza di banali azioni quotidiane che lo aveva condotto un passo dopo l’altro al suo primo scontro mortale con l’esercito tedesco gli pareva di un’incoerenza inspiegabile, come se nessun percorso logico potesse concludersi così. C’era un salto incolmabile tra tutto quello che aveva fatto prima di sparare il suo primo colpo e quello che stava vivendo ora, una voragine superata la quale non restava che abbracciare una dimensione figlia del caos della follia. Come si era potuto ritrovare in quella situazione?

Per rispondere a questa domanda, dobbiamo fare un passo indietro di circa tre mesi.

Nel giugno del 1943, dopo che le forze dell’Asse erano state definitivamente cacciate dal nord Africa, i nazisti avevano cominciato a temere sbarchi alleati in diversi punti del Mediterraneo. Per rinforzare le difese approntate dagli italiani, e forse anche per controllarne i movimenti dopo le recenti disfatte militari, avevano quindi spostato la brigata meccanizzata SS Reichsfuhrer in Corsica, ordinandole di presidiare la parte meridionale dell’isola.

L’arrivo dei tedeschi sull’isola aveva generato qualche tensione e perplessità, ma inizialmente la coesistenza con le truppe italiane non aveva posto particolari problemi.

Il mese successivo però, tutto aveva iniziato a precipitare.

Un soldato americano ferito in Sicilia

Il 9 luglio gli americani avevano dato inizio all’operazione Husky, sbarcando in Sicilia. L’invasione aveva colto di sorpresa le forze dell’Asse, che si aspettavano attacchi alleati in Grecia e Sardegna e non avevano quindi rinforzato il sud Italia. La confusione dei comandi italo-tedeschi era stata ottenuta anche grazie ad un’elaborata operazione di spionaggio, attraverso la quale finti documenti britannici erano stati fatti arrivare ai nazisti per convincerli che un eventuale sbarco in Sicilia sarebbe stato solo una diversione.

Hitler stesso era caduto nella trappola. Il 14 maggio si era infatti incontrato con l’Ammiraglio Donitz per discutere l’andamento della guerra. Nei suoi appunti, l’Ammiraglio indicò che il Fuhrer “non era d’accordo con Mussolini sul fatto che il punto più probabile dell’invasione sarebbe stato la Sicilia. Inoltre, crede che l’ordine anglo-americano scoperto confermi l’ipotesi che gli attacchi pianificati saranno principalmente diretti contro la Sardegna ed il Peloponneso”. Per una volta Hitler avrebbe fatto meglio ad ascoltare Mussolini.

Soldati italiani fatti prigionieri dagli Alleati in Sicilia

Quando gli alleati iniziarono a dilagare in Sicilia, l’intero edificio del regime fascista, già da tempo traballante, cominciò a sgretolarsi. Per alcuni italiani l’arrivo degli anglo-americani fu il segnale dell’inizio di una nuova fase. Per altri, semplicemente la goccia che fece traboccare il vaso.

Pochi giorni dopo lo sbarco, il 19 luglio, Hitler, preoccupato per l’apparente apatia di Mussolini, aveva incontrato il Duce di persona a San Fermo di Belluno, presso Villa Gaggia, e lo aveva informato che secondo l’intelligence tedesca il re d’Italia Vittorio Emanuele III stava tramando per sostituirlo con Badoglio. Mussolini in quei giorni appariva prostrato e durante la riunione fu capace solo di un silenzio ermetico. Di fatto, ciò che il Fuhrer sperava di ottenere da quel colloquio era l’autorizzazione di entrare in Italia col suo esercito. L’incontro fu però chiuso rapidamente prima che una decisione potesse essere raggiunta, a causa del primo pesante bombardamento alleato di Roma, che si scatenò proprio in quelle ore. Quando Mussolini rientrò di fretta nella capitale pilotando il suo aereo personale, riuscì a vedere dall’aria i quartieri orientali di Roma in fiamme.

Nel pomeriggio del 24 luglio, il gran consiglio del fascismo, il massimo organo del partito nazionale fascista sin dal 1922, si riunì nella stanza del pappagallo di Palazzo Venezia, a Roma, per discutere la situazione ormai drammatica in cui versava il paese.

Mussolini aprì la seduta ammettendo che la guerra era in una fase “estremamente critica”. Si lamentò del fatto che le divisioni costiere si erano dissolte in sole 3 ore dopo lo sbarco alleato in Sicilia. E si lamentò anche dei siciliani, che “avevano accolto gli anglosassoni come salvatori”. Non sembrò interessato ad attribuirsi alcuna colpa: gli errori erano sempre degli altri. Alla fine si rivolse ai partecipanti, chiedendo quale fosse l’intento del Gran Consiglio: continuazione della guerra o capitolazione? Ma la sua era chiaramente una domanda retorica. A chiusura del discorso infatti disse: “Dichiaro nettamente che l’Inghilterra non fa la guerra al fascismo, ma all’Italia. L’Inghilterra vuole un secolo innanzi a sé, per assicurarsi i suoi cinque pasti. Vuole occupare l’Italia, tenerla occupata. E poi noi siamo legati ai patti. Pacta sunt servanda”. Insomma: non ne voleva sapere di mollare Hitler.

Dino Grandi

Dopo Mussolini però prese la parola Dino Grandi, Presidente della camera dei fasci e delle corporazioni ed ex Ministro di grazia e giustizia. Il quale, durante il suo intervento, presentò un ordine del giorno che sostanzialmente mirava a chiudere una volta per tutte l’esperimento fascista. L’aveva discusso il giorno prima con Galeazzo Ciano ed era diviso in tre sezioni. Il preambolo era un lungo passaggio retorico, che si appellava alla Nazione e alle Forze Armate, elogiandole per la loro resistenza agli invasori. La seconda parte chiedeva la restaurazione delle istituzioni e delle leggi pre-fasciste. La conclusione era un appello al Re, che avrebbe dovuto assumere i supremi poteri civili e di guerra, secondo l’articolo 5 dello Statuto Albertino, ossia la Costituzione del Regno.

Dopo l’intervento di Grandi, Ciano, come da copione, prese parola per difendere l’ordine del giorno. Mussolini lo ascoltò senza nascondere la sua insofferenza. Incurante, Ciano chiuse la sua arringa accusando la Germania di aver cominciato una guerra che nessuno aveva veramente voluto o pianificato. E a proposito di una possibile rottura con Berlino disse: “Pacta sunt servanda? Sì, certamente: però, quando vi sia un minimo di lealtà anche dall’altra parte. Ed invece, noi italiani abbiam sempre osservato i patti, i tedeschi mai. Insomma, la nostra lealtà non fu mai contraccambiata. Noi non saremmo, in ogni caso, dei traditori ma dei traditi”. Parole queste che avrebbero contribuito alla sua condanna a morte, eseguita poco meno di 6 mesi più tardi.

Diversi furono gli interventi successivi, che prolungarono la riunione. Dopo le 23, la seduta venne sospesa per mezz’ora. A lavori ripresi, Mussolini tentò un ultimo affondo, dichiarando che “chi chiede la fine della dittatura sa di volere la fine del fascismo”. Ma pareva ormai quasi disinteressato a tutto. E infatti non cercò di impedire un voto sull’ordine del giorno Grandi.

Le votazioni avvennero quindi alle 2,30 della notte. Con 19 voti favorevoli su 28, inclusi quelli di Ciano e Bastianini, che aveva contribuito al salvataggio della comunità ebraica nei territori francesi occupati dagli italiani, l’ordine del giorno venne approvato. “Signori”, commentò Mussolini, “voi avete aperto la crisi del regime”. La moglie Rachele, una volta rincasato, gli chiese se avesse fatto arrestare gli insorti. “Domani lo farò”, le disse. “Domani sarà troppo tardi”, rispose lei con un soffio. Aveva già capito cosa sarebbe successo. Un semplice rimpasto di governo, come forse pensava il Duce, non sarebbe stato sufficiente ad uscire dalla crisi.

Vittorio Emanuele III

Il giorno dopo infatti Vittorio Emanuele III lo ricevette a Villa Savoia, oggi Villa Ada, e gli comunicò di aver rimesso il governo nelle mani di Badoglio. “Allora tutto è finito”, esclamò incredulo Mussolini, accasciandosi. Con la scusa di volerlo proteggere, il re lo fece quindi prelevare dai carabinieri, che lo caricarono su una autombulanza militare e lo arrestarono. Il piano di cattura era stato messo a punto dal generale Castellano con l’aiuto del generale Carboni. Entrambi avranno presto un ruolo da giocare nella firma dell’armistizio con gli Alleati.

Quando la notizia della caduta del fascismo si diffuse, l’Italia si precipitò in piazza per ripudiarlo, con manifestazioni tanto spontanee quanto rumorose. Improvvisamente, gli italiani si riscoprirono antifascisti. Delle persone che fino a pochi giorni prima si sgolavano per osannare Mussolini, Benedetto Croce disse: “Non certo impreveduto, ma sempre repugnante è lo spettacolo al quale si assiste dei rapidi cambiamenti politici”. I pochi oppositori del regime incarcerati durante il ventennio scoprirono con stupore di essere ormai una minoranza di fronte alla nuova massa di antifascisti. Un’esperienza simile a quella che i partigiani sperimenteranno verso la fine della guerra, quando, a pericolo scampato, le loro fila si ingrosseranno all’inverosimile con l’arrivo di persone ansiose di ripulire il proprio nome e saltare sul carro dei vincitori.

Una volta insediatosi al governo, Badoglio abolì sia il partito fascista che il gran consiglio del fascismo. Quando Hitler venne informato degli eventi in Italia perse completamente il controllo. Iniziò a gridare “Tradimento! Tradimento!” con quanto fiato aveva in gola, incapace di placare la sua rabbia. Uno dei suoi generali, presente alla scena, la descrisse come “uno sbalorditivo e sconvolgente sfoggio di confusione mentale e di mancanza d’equilibrio”.

L’Italia si trovò a quel punto nell’infelice situazione di essere guardata con sospetto sia dai nazisti, che la consideravano ormai come un ex alleato in procinto di saltare dalla parte degli Alleati, che dagli anglo-americani, che ancora non si fidavano del nuovo governo. E infatti i bombardamenti aerei continuarono: Milano e Torino vennero duramente colpite nell’agosto del 1943.

Mio nonno, come tutti i soldati italiani, seguiva con apprensione le notizie provenienti da Roma in quei giorni convulsi. Tutti si chiedevano cosa sarebbe successo, se improvvisamente avrebbero dovuto combattere contro i tedeschi o se gli Americani li avrebbero invece investiti con uno sbarco in Corsica. Alcuni sognavano ad occhi aperti, immaginando di poter tornare subito a casa. Altri, persi in fantasticherie ancora più schizofreniche, dichiaravano che il fascismo non sarebbe morto, così come l’alleanza con la Germania.

Nel caos di conferme e smentite, le voci di corridoio si propagavano con la velocità di un incendio tra le truppe italiane. Mio nonno cercava di rassicurare i suoi uomini come poteva, ma la realtà era che non aveva molto da offrire loro. Si muoveva tra i soldati cercando di nascondere il suo nervosismo, per evitare che il panico contagiasse tutti. Solo due persone gli erano sufficientemente vicine da raccogliere le sue confidenze: un ex compagno di corso a Pola, il sottotenente Enrico Mazzoni, ed il suo attendente, il bersagliere Mario Borghi.

Enrico Mazzoni era originario di Novi Ligure e, come mio nonno, era nato nel 1921. Si erano conosciuti alla scuola ufficiali di Pola, che avevano completato lo stesso giorno, ed erano entrambi stati assegnati al XXXIII battaglione bersaglieri ciclisti, 9° compagnia. Mazzoni era un intellettuale, ma il suo animo sensibile era intrappolato in un corpo che non conosceva la paura. E infatti nel corso della guerra avrà modo di distinguersi, a partire proprio dalla Corsica. Dopo le ostilità, si dedicherà con successo allo sviluppo della vita culturale del suo paese, diventando prima preside del Liceo Scientifico locale, poi co-fondatore e docente dell’Università della Terza Età di Novi Ligure ed infine presidente del Centro Studi “In Novitate”, che ancora oggi si occupa della tutela del patrimonio storico, culturale, religioso e sportivo del territorio di Novi.

Con Mario Borghi, anch’egli classe 1921, il tempo è invece stato meno clemente e di lui si è persa quasi ogni traccia. La mente di mio nonno però ne conservava un ricordo indelebile. Quando me ne parlava da bambino, l’entusiasmo accendeva per un attimo i suoi occhi, ma poi la sua voce perdeva forza e doveva distogliere lo sguardo. Il tempo cambia il peso dei ricordi: alcuni si fanno leggeri e volano via, altri invece si incastrano da qualche parte ed affondano, diventando dei macigni.

Si erano conosciuti quando aveva raggiunto la sua unità in Toscana e Borghi era scattato sull’attenti presentandosi come il suo attendente, una figura questa che oggi non esiste più ma che all’epoca indicava il soldato incaricato del servizio personale di un ufficiale. Nel corso dei lunghi mesi trascorsi insieme, Borghi divenne per mio nonno molto più di un sottoposto cui gridare degli ordini. Si ritrovarono a contemplare la morte uno di fianco all’altro e la loro fu un’amicizia capace di tutto, che non appartiene a questo mondo.

Il generale Magli

Per fermare il chiacchiericcio dei soldati intervennero gli alti comandi. Il 26 luglio, il giorno dopo l’arresto di Mussolini, il generale Magli diramò alle truppe in Corsica un messaggio in cui evidenziava come l’esercito fosse “sempre stato fedele al re ed estraneo alla politica”. Non era ancora una chiara indicazione della direzione da prendere, ma era già un passo di lato per smarcarsi da Mussolini e dalla sua contiguità con Hitler.

Mio nonno, che era cresciuto con un senso dell’autorità e del dovere onorevoli, ma che oggi sconfinerebbero forse nel ridicolo, si rallegrò. Anche per lui il Re era sempre rimasto il punto di riferimento più importante. Incarnava ai suoi occhi l’unità ultima del paese, una sorta di baluardo immutabile che gli andirivieni della politica non avrebbero potuto scalfire. Opinione questa che avrebbe cambiato nel corso della vita, ma che nell’immediato dopoguerra, contrariamente alla sua futura moglie Ginetta, avrebbe confermato votando monarchia al referendum del 1946.

Ricevuto il comunicato di Magli, rincuorò quindi i suoi uomini con un mezzo sorriso e si preparò ad affrontare quelle giornate difficili, ove tutto pareva appeso a un filo.

Pietro Badoglio

Badoglio intanto, resosi conto dell’impossibilità di continuare la guerra, aveva deciso di intavolare trattative con gli Alleati. Precisamente ciò che i tedeschi temevano avrebbe fatto.

Dopo aver messo al sicuro Mussolini traducendolo presso l’albergo Campo Imperatore sul Gran Sasso, o almeno così lui credeva, aveva dato istruzioni al generale Castellano di incontrare gli americani e firmare l’armistizio. Come unica condizione, Castellano aveva chiesto agli Alleati un loro intervento diretto nella penisola, che gli venne garantito. Per accelerare i tempi delle trattative però, Eisenhower minacciò un massiccio bombardamento su Roma, che venne richiamato all’ultimo momento quando il documento ufficiale venne finalmente firmato il 3 settembre a Cassibile, in provincia di Siracusa. Il firmatario di parte americana fu il futuro direttore della CIA Walter Bedell Smith.

Nei giorni immediatamente successivi alla firma, l’armistizio venne tenuto segreto. Badoglio voleva infatti preparare l’esercito e predisporre la difesa di Roma dai tedeschi, che erano già dilagati in Italia con 8 divisioni ed una brigata alpina, prendendo il controllo della Liguria, della foce del Tevere, dell’Alto Adige e dell’Emilia Romagna. Come ci si poteva attendere, i tedeschi non si erano fatti cogliere impreparati dal rovesciamento del fascismo: il piano per l’occupazione militare dell’Italia e la neutralizzazione delle sue forze armate, denominato operazione Achse, era infatti stato approntato già a partire dal maggio del 1943.

In previsione dell’annuncio dell’armistizio, il 5 settembre lo Stato Maggiore italiano formulò il cosiddetto “promemoria 1”. Sostanzialmente un documento strategico che indicava come l’esercito si sarebbe dovuto difendere da eventuali attacchi nazisti e avrebbe dovuto tenere gli aeroporti non ancora presidiati dai nazisti. Passaggio questo fondamentale per consentire l’arrivo di paracadutisti alleati a Roma, che sarebbero potuti intervenire per proteggerla dalle truppe tedesche. Ma un piano simile sarebbe stato fattibile se la difesa della capitale e degli aeroporti avesse tenuto. E invece il generale Carboni, incaricato di proteggere Roma, perse il suo sangue freddo. Nonostante i numeri fossero dalla sua parte, sostenne di non poter resistere ai tedeschi per più di sei ore. Badoglio, contagiato dal panico del suo sottoposto, lo appoggiò e chiese la cancellazione dell’operazione alleata su Roma, nonché il rinvio dell’annuncio dell’armistizio. Eisenhower annullò quindi la missione aerotrasportata ma si oppose ad ogni ulteriore rinvio dell’armistizio e alle 18.30 dell’8 settembre lo rese pubblico via radio, come se Badoglio fosse d’accordo.

Messi di fronte al fatto compiuto e per timore di rappresaglie alleate, i comandi italiani accettarono la situazione. Circa un’ora dopo, anche Badoglio annunciò quindi la firma dell’armistizio, indicando che “ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”. Come se questo fosse sufficiente a coordinare i movimenti dell’esercito italiano, che si era improvvisamente ritrovato senza guida.

Soldati inglesi impegnati in combattimento nei dintorni di Salerno

Gli Alleati, che stavano già risalendo lungo la Calabria, non persero tempo e il giorno dopo sbarcarono a Salerno e Taranto.

Contemporaneamente, Vittorio Emanuele III e Badoglio abbandonarono precipitosamente la capitale per rifugiarsi a Brindisi insieme a vari esponenti del governo, dell’esercito e della casa reale. La fretta con la quale la fuga fu realizzata impedì all’esercito italiano, che pure poteva contare su circa un milione di uomini nella sola penisola ed in Sardegna, di ricevere ordini precisi e muoversi organicamente. Ogni iniziativa venne di fatto lasciata ai comandanti di reparto, che spesso si trovarono a fronteggiare ultimatum tedeschi di resa e cessione delle armi. Intere unità italiane smisero quindi di combattere e il bottino tedesco fu enorme. In alcuni casi, i soldati italiani vennero semplicemente sterminati, come per esempio accadde alla divisione Acqui a Cefalonia.

Quando l’operazione Achse si concluse, i nazisti avevano collezionato 800.000 prigionieri italiani e si erano appropriati di intere riserve di viveri e materiali. Il generale Jodl, occupandosi dell’occupazione dell’Italia in un rapporto del 7 novembre 1943, scrisse che “sono state reperite materie prime in quantità molto superiore a quelle che ci si poteva aspettare alla luce delle incessanti richieste economiche italiane”.

Mussolini viene prelevato dall’albergo Campo Imperatore sul Gran Sasso

Mentre il Re, in Puglia, dava vita al cosiddetto regno del sud, che sarebbe stato alle dirette dipendenze degli Alleati, Mussolini veniva liberato dai paracadutisti tedeschi. Il 12 settembre venne infatti prelevato sul Gran Sasso a conclusione di una delle ultime operazioni naziste di successo. Trasportato in Germania, incontrò Hitler tre giorni dopo. Il Duce, ormai in condizioni di salute precarie, espresse l’impossibile desiderio di sparire dalla scena pubblica, come un pensionato qualsiasi. Ma era ormai troppo tardi. Il Fuhrer minacciò la distruzione di Milano, Genova e Torino se non avesse collaborato coi suoi disegni. E così, seppure riluttante, Mussolini accettò di obbedire agli ordini ricevuti e insediarsi come Capo di Stato e Primo Ministro della nuova Repubblica Sociale Italiana di Salò, che venne proclamata il 23 settembre. Tutto era ormai pronto per la guerra civile che avrebbe straziato l’Italia per i quasi due anni successivi.

Gli eventi dell’8 settembre avevano investito come un uragano tutti i soldati italiani, incluso mio nonno e i reparti di stanza con lui in Corsica.

Il generale Fridolin von Senger und Etterlin

Il generale Magli aveva infatti appreso dell’armistizio alle 19 dell’8 settembre non da Roma, bensì ascoltando la BBC. Un’informazione che l’aveva raggiunto appena in tempo, dato che pochi minuti dopo si era presentato a cena, come da precedente invito, il comandante tedesco in Corsica, il Generale Fridolin von Senger und Etterlin. Una cena che venne condotta col coltello tra i denti, dato che Magli, dopo il rovesciamento del fascismo, aveva già ricevuto pressioni dal suo parigrado nazista per immettere artiglieri tedeschi nelle batterie costiere italiane. Avendo compreso l’intento di von Senger und Etterlin di esercitare in quel modo un certo controllo sulle sue truppe, Magli aveva opposto un netto rifiuto. E si ritrovava ora a dover discutere della nuova posizione dell’Italia, di cui era stato fortunosamente informato solo qualche minuto prima.

Dopo una cena scomoda, la conversazione proseguì nell’ufficio del generale italiano. Magli chiarì che da quel momento l’esercito italiano non avrebbe più lanciato alcuna azione di guerra né contro i francesi né contro gli Alleati. Per contro, il generale tedesco gli confidò il suo desiderio di abbandonare la Corsica insieme ai suoi uomini. Magli gli garantì quindi libertà di movimento per ritirarsi, sperando che quello sarebbe bastato per evitare qualsiasi spargimento di sangue.

Ma von Senger und Etterlin aveva semplicemente fatto buon viso a cattivo gioco. Salutato Magli, si recò infatti presso il suo centro di comando e poco dopo, a mezzanotte e mezza, truppe tedesche lanciarono un improvviso e violento attacco al porto di Bastia. Gli italiani di guardia vennero presi completamente alla sprovvista e la città cadde rapidamente in mano nazista. Durante l’offensiva, 27 soldati italiani persero la vita. Alcuni dormivano e furono pugnalati a morte nei loro quartieri prima ancora di poter prendere parte alla battaglia.

Magli venne informato quando l’attacco ancora impazzava e reagì rabbioso, ordinando ai suoi uomini di contrattaccare e riprendere il porto. All’alba del 9 settembre, l’artiglieria italiana, strategicamente posizionata nella cittadella di Bastia e nei forti circostanti, entrò quindi in azione. Le posizioni tedesche vennero prese di mira e colpite duramente. A bombardamento completato, le forze italiane si gettarono dentro la città, forzarono il porto e lo riconquistarono. Secondo alcune stime, negli scontri persero la vita 75 italiani e 160 tedeschi.

La torpediniera Aliseo

Vistisi sopraffatti, i tedeschi sopravvissuti cercarono di mettersi in salvo fuggendo a bordo delle loro imbarcazioni, che lasciarono precipitosamente il porto. Magli però non volle assecondarli e ordinò che venissero intercettati. La torpediniera italiana Aliseo, che incrociava al largo di Bastia, tornò quindi indietro e raggiunse il naviglio tedesco in allontanamento. In un solo quarto d’ora, tra le 8.20 e le 8.35 del mattino, e nonostante i danni ricevuti dal fuoco nemico, attaccò ed affondò due cacciasommergibili e cinque motozattere tedesche. Le perdite tedesche furono pressoché totali: solo 25 sopravvissuti vennero recuperati dal mare. Per quest’azione, il comandante dell’Aliseo, il capitano di fregata Carlo Fecia di Cossato, verrà insignito della medaglia d’oro al valor militare.

Senza rendersene conto, i militari italiani coinvolti in questi scontri furono protagonisti di una delle pochissime reazioni vittoriose all’operazione Achse. Le unità che presidiavano la Francia sud-orientale ebbero meno fortuna. Scavalcarono rapidamente le Alpi per rientrare in Italia e si avviarono in direzione di Torino e Cuneo, dove però si arresero ai tedeschi. Alcuni dei soldati che le componevano riuscirono a nascondersi e a prendere la via della montagna, dove divennero partigiani. Tra loro c’era anche il generale Antonio Trabucchi, ex capo di stato maggiore della 4° armata che aveva occupato la Francia, che riceverà poi il comando generale unico per tutte le operazioni di combattimento partigiane in Piemonte.

Mentre i corsi già iniziavano a festeggiare l’armistizio e la fine dell’occupazione italiana, scaricando in aria le poche armi da caccia o da guerra che ancora avevano, la notizia degli scontri a Bastia percorse l’intero contingente italiano come una frustata.

“Cosa facciamo ora, signore?”, chiese Borghi a mio nonno, un lampo di paura negli occhi. Teneva le labbra serrate, cercando di mantenere una parvenza di autocontrollo. Ma mio nonno si accorse che aveva il respiro pesante e le dita delle mani serrate sulla stoffa dei pantaloni.

“Non ti preoccupare. Per ora siamo in vantaggio. E poi Fucci saprà cosa fare”.

Ettore Fucci era il comandante del 10° Raggruppamento Celere, in cui l’unità di mio nonno era inquadrata. Ed aveva una determinazione che sfiorava la follia. Bersagliere anche lui, era nato nel 1895 a Barletta. Nel corso della sua lunga carriera militare, parteciperà ad entrambi i conflitti mondiali, giocherà un ruolo chiave nella guerra di liberazione italiana, verrà ferito quattro volte, mutilato a entrambe le gambe e insignito di quattro Medaglie d’Argento, due Medaglie di Bronzo, due Croci di Guerra al valore militare e cinque Croci Ordinarie di Guerra. Era un uomo che i soldati erano felici di avere dalla loro parte, a cui guardavano con un misto di ammirazione e timore. E a cui non si poteva dire di no.

Uscito malconcio dal primo scontro con le truppe italiane, il Generale von Senger und Etterlin tentò un nuovo bluff. Nella nottata del 9 settembre, dopo aver perso il porto di Bastia, tornò a trovare Magli presso il centro di comando italiano di Corte. Si presentò col cappello in mano e si scusò per gli incidenti della notte prima, accusando i suoi sottoposti di non averlo ascoltato e promettendo che non si sarebbero ripetuti. Magli lo ascoltò a denti stretti e nuovamente gli promise libertà di movimento a patto che si ritirasse dall’isola. Ma aggiunse anche che non avrebbe tollerato alcuna aggressione.

Anche questa volta però, i fatti avrebbero contraddetto le parole di von Senger und Etterlin. E avrebbero gettato la Corsica in una spirale di violenza incontrollabile.

Mentre il generale tedesco conferiva col comando italiano, dalla Sardegna, dov’erano di stanza, stavano infatti affluendo in Corsica cospicui rinforzi tedeschi. L’attacco a Bastia era stato semplicemente una distrazione e un diversivo per guadagnare tempo. Gli uomini della 90° Divisione Panzergrenadier sbarcarono infatti il 9 settembre a Bonifacio ed il 10 a Porto Vecchio.

Resisi conto di quel che stava accadendo, i partigiani corsi chiesero agli italiani di unire le forze. Due trattati vennero quindi redatti a Bastia. Il primo indicava che “il segnale è stato dato. È quindi vostro dovere associarvi al popolo corso, alla sua causa. Siate a fianco dei corsi al canto della Marsigliese e dell’Inno di Garibaldi. Manifestate la vostra gioia (…). Non fatevi disarmare, tenete i vostri fucili o consegnateli ai compagni corsi. Morte ai criminali dell’OVRA, morte ai carabinieri assassini. Morte ai traditori di Vichy. Viva la libertà e la fraternità dei popoli”. Il secondo invece faceva trasparire una certa ammirazione per gli eventi di Bastia della notte prima: “Italiani! Siate con noi in questa ora di gioia. Che il sangue latino che scorre nelle nostre vene sia il legame sacro tra i Corsi e gli italiani. Vi abbiamo ammirati stanotte quando avete sconfitto i tedeschi (…) Siate al nostro fianco. Per la pace, per la libertà, per la fraternità latina”.

Magli decise di accettare l’offerta dei partigiani. Il 10 settembre incontrò a Corte Paulin Colonna d’Istria, capo della resistenza sull’isola. Ufficiale dell’esercito francese, era in Africa quando era scoppiata la seconda guerra mondiale. Entrato nella resistenza, era stato fatto sbarcare sulla costa orientale della Corsica da un sottomarino britannico il 4 aprile 1943, per dirigere le operazioni del Front National. Magli promise al suo ex nemico di restituire ai partigiani le armi che gli italiani avevano sequestrato nei mesi precedenti.

Lo stesso giorno, Magli informò il comando tedesco che avrebbe potuto contare su un’unica strada per spostare le truppe fino al porto di Bastia e lasciare l’isola: quella cioè che correva lungo la costa orientale della Corsica. Magli chiarì anche che il resto del territorio corso sarebbe rimasto sotto il diretto controllo italiano, inclusa la città di Bastia. I tedeschi presero nota ma non risposero. Una cortina di gelo calò definitivamente tra gli ex alleati.

Il generale Roatta

A chiarire definitivamente la situazione, qualora fosse proprio necessario, ci pensò il capo di stato maggiore dell’esercito italiano, generale Roatta. Il giorno dopo, alle 10 del mattino, inviò a Magli un messaggio esplicito: “Considerare le truppe tedesche come nemiche”.

Un’ora dopo Magli radunò intorno a sé il suo consiglio di guerra e distribuì ordini a tutte le grandi unità italiane. Il suo piano prevedeva l’attacco dei tedeschi in molteplici punti dell’isola, in particolare a Bonifacio e Porto Vecchio, dove erano sbarcati, nonché l’istituzione di svariati centri di resistenza per far fronte a possibili contrattacchi tedeschi. In parallelo, i partigiani corsi sarebbero stati utilizzati nell’attacco di magazzini e postazioni isolate tedesche.

Il dado era tratto e tutto era ormai pronto. Ma i tedeschi furono più rapidi.

Von Senger und Etterlin attaccò per primo, mandando in frantumi i disegni di Magli. Alle 17 del 12 settembre, i tedeschi piombarono su Casamozza, un villaggio poco più a sud di Bastia il cui controllo era necessario sia per assicurarsi il passaggio sul fiume Golo, che sbarra la strada verso Bastia tagliando di traverso la Corsica nord-orientale, sia per accedere all’aeroporto della città.

I primi colpi vennero sparati da due batterie dei temibili cannoni 88 tedeschi. L’artiglieria italiana rispose e il duello che seguì distrusse il paesaggio, tranciando alberi ed aprendo profondi crateri nel terreno. Completato il bombardamento, durante il quale venne colpito anche un deposito di mine anticarro a sud di Bastia che esplose squarciando l’aria, una colonna tedesca della brigata meccanizzata SS Reichsfuhrer piombò sugli italiani della Divisione Friuli che presidiavano i ponti e gli snodi stradali di Casamozza.

L’assalto fu rapido e violento: i carri armati tedeschi seguiti dalla fanteria sfondarono i posti di blocco italiani, costringendo gli uomini della Friuli a fuggire. Durante la ritirata, il ponte stradale sul fiume Golo venne fatto saltare, ma non quello ferroviario. I tedeschi riuscirono a catturarlo intatto e poterono quindi continuare la loro cavalcata verso Bastia.

Durante lo scontro, l’artiglieria della Divisione Friuli venne completamente distrutta. Nonostante l’inevitabile sconfitta, il capitano Bruno Conti, comandante di una delle batterie, si fece valere fino alla fine, guadagnandosi la medaglia d’oro al valor militare alla memoria. Ferito gravemente durante gli scontri, rifiutò infatti ogni cura e per tre ore continuò a dare ordini ai suoi uomini nel tentativo di resistere all’assalto in corso. Resosi conto che i tedeschi stavano ormai per piombare sulla sua posizione e che la morte era per lui inevitabile, spinse i suoi uomini a sganciarsi e trovare salvezza nelle retrovie. La divisa intrisa di sangue, si appoggiò finalmente ad uno dei pezzi della sua artiglieria e, rimasto solo, si lasciò morire lì. I nemici che dilagavano correndo intorno a lui fu l’ultima cosa che vide.

Più o meno allo stesso momento, il 10° Raggruppamento Celere, di cui l’unità di mio nonno faceva parte, si stava rapidamente ritirando verso l’interno della Corsica. L’ordine che avevano ricevuto da Magli era stato quello di rinforzare l’aeroporto di Ghisonaccia, sulla costa orientale dell’isola. Ma l’avevano raggiunto troppo tardi.

I tedeschi l’avevano infatti investito già il giorno prima e gli italiani che vi erano basati erano precipitosamente fuggiti verso St Antoine, in direzione delle montagne al centro dell’isola. Il sottotenente Lucio De Tullio, uno degli addetti al comando, si era accorto durante la ritirata che alcuni dei suoi uomini erano rimasti bloccati all’interno dell’aeroporto. Senza pensarci un attimo in più, era quindi tornato indietro ed era riuscito in qualche modo a recuperarli. Per quest’azione e per le ferite riportate nei successivi combattimenti, durante i quali venne gravemente mutilato, ricevette la medaglia d’argento al valor militare.

Raggiunta coi fuggiaschi dell’aeroporto la gola dell’Inzecca, in cui il Fiumorbo scorre attraverso uno stretto passaggio nella roccia ed è scavalcato dal ponte del Pinzalone, il 10° Raggruppamento Celere si era quindi fermato ed aveva preparato la sua imboscata, consapevole che i tedeschi lo stavano tallonando. L’obiettivo della Wehrmacht era con ogni probabilità quello di raggiungere Corte, sede del comando italiano nonché della maggior parte dei magazzini di viveri e munizioni. Fermarne l’avanzata era quindi imperativo.

Ricevuti gli ordini di Fucci, mio nonno si era consultato con gli altri ufficiali della sua compagnia e gli uomini erano stati schierati nelle loro postazioni difensive. Poco lontano da lui, poteva vedere Mazzoni che finiva di disporre le mitragliatrici Breda 30 del suo plotone, tristemente famose per essere particolarmente inaffidabili. Ma non c’era altra possibilità che usare quello che avevano a disposizione.

Mio nonno impartì le istruzioni del caso ai suoi uomini, poi si rivolse a Borghi. “Qualunque cosa succeda, resta accanto a me. Non ti allontanare”, gli disse. Borghi annuì, tolse la sicura al suo moschetto per truppe speciali, dalla canna accorciata per facilitare il trasporto in bicicletta, e camerò il primo colpo. “Sono pronto signore”, rispose.

Sdraiatisi all’interno delle loro postazioni difensive, iniziarono quindi ad osservare la strada, aspettando di veder comparire la testa della colonna tedesca in avvicinamento. Respirare era difficile e mio nonno cercava di controllare le mani per non farle tremare troppo.

“Non oggi Signore, non oggi, ti prego, non oggi”, ripeteva dentro di sé continuamente, come un mantra, mentre pensava ai baci di Ginetta, alle risate di suo fratello, ai suoi amici dei giorni di Pola e agli abbracci dei suoi genitori. Essere sdraiato lì con la possibilità di morire nel corso dell’ora successiva, senza poter dire nulla a nessuno, gli pareva inverosimile. Ma doveva costringersi ad avere fiducia.

Ad un tratto, ebbe la sensazione che la tensione gli stesse concedendo un momento di tregua. “Ce la posso fare, ne uscirò vivo”, si disse, provando a tirare le labbra in un mezzo sorriso, mentre il cuore che gli martellava in gola gli riscendeva finalmente nel petto con un rimbombo sordo. Essere riuscito a darsi coraggio anche solo per un secondo lo fece sentire meglio. Ma proprio in quel momento i primi mezzi tedeschi sbucarono da dietro una curva ed iniziarono ad arrampicarsi rombando verso la gola dell’Inzecca. Aprivano la strada diversi carri armati, seguiti da autocarri colmi di truppe.

Quando li avvistò, tutti i suoi pensieri si arrestarono improvvisamente, come se fossero andati in pezzi contro un muro. Qualcosa di pesante gli cadde sul cuore ed il tempo iniziò a rallentare, dandogli modo di registrare tutto con una nitidezza allucinata.

“Sapete cosa fare!”, gridò ai suoi uomini. “Sparate finché non si muove più nessuno!”.

La zona d’operazioni di mio nonno. Ghisonaccia é visibile sulla costa, in basso. Il punto rosso indica la posizione in cui il Fiumorbo passa attraverso la gola dell’Inzecca

Il piano di Fucci consisteva nell’inchiodare la colonna tedesca all’interno della gola per poi finirla a colpi di artiglieria, il cui tiro sarebbe stato diretto da osservatori posizionati a monte della linea difensiva. Un disegno semplice ma efficace, basato sulla migliore conoscenza del terreno che avevano gli italiani.

A guardarla, si sarebbe detto che la colonna tedesca si muoveva, ma poi pareva non avanzare mai. Mio nonno e i suoi uomini non vedevano l’ora di farla finita, ma furono costretti ad aspettare ancora a lungo, spezzandosi i nervi, prima che i mezzi tedeschi giungessero a tiro. Restare fermi così, cercando di respirare normalmente, era una tortura. Una cosa da impazzire.

Finalmente i tedeschi raggiunsero la posizione prevista per l’agguato e a quel punto, senza preavviso, la valle venne inondata dallo schianto assordante di centinaia di bocche di fuoco che sparavano insieme. Le mitragliatrici presero di mira gli autocarri, squarciandone le lamiere, facendone esplodere i finestrini e costringendoli ad arrestarsi confusamente, come se fossero stati gettati a caso in mezzo alla strada. Più avanti i primi colpi anticarro ed i primi proiettili di artiglieria cominciarono a cadere di fronte ed intorno ai carri armati, che arrestarono la loro corsa ed iniziarono a ruotare le torrette in cerca di bersagli da colpire.

Per chi subisce un’imboscata del genere ci sono solo due possibilità di sopravvivenza. La prima è la fuga: attraversare l’area dell’agguato alla massima velocità possibile senza guardarsi indietro. La seconda è la lotta: abbandonare i mezzi, scendere in strada e rispondere al fuoco. I tedeschi lo sapevano ed erano soldati ben addestrati. Visto che muoversi sotto il pesante fuoco italiano era impossibile, saltarono fuori dagli autocarri e iniziarono a sparare verso le posizioni del 10° Raggruppamento Celere.

Mio nonno svuotò i primi caricatori come se fosse in un sogno, senza cercare veramente di mirare, ma contribuendo semplicemente al volume di fuoco che veniva vomitato sui tedeschi incastrati sulla strada. Poi da lontano gli giunse il ricordo dell’addestramento che aveva ricevuto. Camerò quindi il colpo successivo, prese bene la mira e questa volta trattenne il respiro prima di tirare il grilletto, per ridurre il movimento dell’arma come gli avevano insegnato.

Non sentì il colpo che esplose, ma l’uomo che aveva nel centro del mirino fece una piroetta scomposta sulla strada mentre uno sbuffo rosso si apriva sulla sua divisa grigia. Un attimo dopo era riverso a terra, abbandonato in una posizione innaturale. Ciò che fino ad un momento prima era stato aspirazioni e sentimenti divenne un mucchio vuoto. “Che cosa ho fatto”, si disse, mentre cacciava fuori l’aria dai polmoni con forza. Avrebbe sparato con più cattiveria in futuro, ma in quel momento non aveva ancora coscienza di quanto a fondo si poteva precipitare dentro sé stessi.

Le dita gli divennero improvvisamente fredde ed ebbe la netta sensazione di aver violato un terreno proibito, che si allunga nascosto oltre i margini della coscienza e che nessuno dovrebbe esplorare. Un terreno paludoso, in cui si affonda e da cui uscire è impossibile. Dove l’unica dimensione che conta è quella dell’infinita colpa di un danno irreparabile.

Ma non ebbe modo di pensarci troppo a lungo. I tedeschi, dopo la confusione iniziale, si erano riorganizzati ed ora i loro colpi arrivavano molto vicini alle posizioni italiane. Troppo vicini. Si accorse che diversi bersaglieri erano stati feriti, visto che il personale medico aveva iniziato a saltare da una buca all’altra per portare soccorso a chi aveva iniziato a gridare.

Inoltre i tedeschi dovevano essere riusciti ad avvisare la loro artiglieria, perché era partito un pericoloso fuoco di controbatteria che si stava avvicinando tuonando attraverso le montagne e che prima o poi li avrebbe costretti a ritirarsi.

“Sganciamoci! Via di qua!” iniziò a urlare. Uno dopo l’altro i suoi uomini iniziarono quindi a indietreggiare per lasciare la gola, scavallare dall’altra parte del monte e trovare riparo. Stava per muoversi anche lui quando sulla destra vide Mazzoni balzare in avanti per raggiungere uomini di altre unità inchiodate poco più a valle dal fuoco tedesco. Restare fermi lì sarebbe equivalso a morire e qualcuno doveva quindi coordinarli e costringerli a muoversi. “Dove vai!”, gli gridò mio nonno con tutto il fiato che aveva in gola, senza però che la sua voce riuscisse a raggiungerlo.

“Fuoco di copertura!”, ordinò quindi a chi era ancora intorno a lui, indicando ripetutamente Mazzoni che correva verso valle. Chi sentì l’ordine iniziò a sparare sopra la sua testa, nel tentativo di impedire ai tedeschi di muoversi e fare fuoco su di lui.

Miracolosamente, Mazzoni riuscì a raggiungere le posizioni italiane avanzate e a coordinarne le azioni e la ritirata. Per il suo coraggio e per essere riuscito a rimanere in contatto con i reparti italiani più esposti, verrà poi insignito della Croce di Guerra al Valor Militare.

Altri due bersaglieri del 10° Raggruppamento Celere vennero decorati per il valore dimostrato in quella giornata. Il Capitano Silvino Borla, che raggiunse la strada in cui erano immobilizzati i mezzi nemici riuscendo a prendere prigioniero un sottufficiale tedesco. E il tenente Salvatore Cammarone, ufficiale medico del battaglione di mio nonno, che continuò a prestare soccorso ai feriti durante tutto il combattimento e sotto costante fuoco nemico.

Una sezione della gola dell’Inzecca

Alla fine il piano di Fucci funzionò. L’artiglieria italiana calibrò meglio il tiro sulla colonna inchiodata sulla strada e mise fine ai combattimenti. Cinque carri armati e tre autocarri saltarono rapidamente in aria, insieme agli uomini che li avevano usati come copertura e che ancora combattevano intorno a loro. Di loro non restò nulla: solo qualche macchia rosso scura sul terreno. Il resto della colonna tedesca, vistasi ostruita la via da forze soverchianti, fece marcia indietro e rientrò verso l’aeroporto di Ghisonaccia, sparando in direzione della gola dell’Inzecca per coprire la propria la ritirata. Le unità del 10° Raggruppamento Celere lasciarono la valle per sottrarsi al fuoco di controbatteria tedesco e si riorganizzarono poco più a monte.

Improvvisamente, così com’era cominciato, tutto era finito. Sulla valle calò di nuovo il silenzio e poco dopo scese la notte, mentre sulla strada bruciavano i rottami contorti dei mezzi tedeschi distrutti. Il tentativo di von Senger und Etterlin di penetrare verso l’interno dell’isola era fallito e non si sarebbe ripetuto.

Quando furono finalmente al sicuro, Borghi si mise a camminare di fianco a mio nonno. Aveva uno sguardo implorante e tremava ancora visibilmente. Mio nonno si accorse che aveva i pantaloni bagnati e che sulla stoffa gli si era allungata una macchia. “Non ti preoccupare, puo’ succedere. Ti sei comportato bene oggi”, gli disse stringendogli una spalla. “Il resto non importa. Vai a riposare ora”. Gli sorrise e continuò a seguirlo con lo sguardo mentre si allontanava tra gli alberi.

Ricordo quando, da bambino, avevo convinto mio nonno a far finta di essere il mio ufficiale durante un gioco di guerra. Il pezzo di legno che avevo in mano era diventato il mio fucile e con quello mi ero messo a correre attraverso un prato da un albero all’altro, avvicinandomi al mio nemico immaginario mentre lui mi seguiva ordinandomi come muovermi. Improvvisamente, mi aveva detto di buttarmi a terra perché un aereo nemico stava per bombardarci.

Purtroppo per lui, in quel preciso momento un piccolo aereo da turismo aveva forato il cielo sbucando da dietro gli alberi ed era passato in volo radente sopra di noi. Nella mia mente di bambino, in cui realtà ed immaginazione ancora convivevano, avevo avuto la certezza che la minaccia fosse reale e mi ero messo a correre gridando verso mio nonno. Lo avevo raggiunto di slancio e nel suo abbraccio ero alla fine riuscito a calmarmi. Alzando lo sguardo su di lui, mentre mi carezzava i capelli e mi asciugava le lacrime, gli avevo detto che non volevo più giocare alla guerra, che faceva troppa paura.

“Hai ragione sai, fa troppa paura. Vieni, andiamo a casa”, mi aveva detto sorridendomi e prendendomi per mano. All’epoca mi aveva fatto piacere che mio nonno mi desse ragione. Ma mi chiedo ora, a oltre trent’anni di distanza, a cosa pensava veramente quando aveva pronunciato quelle parole.

Il giorno dopo lo scontro della gola dell’Inzecca, i tedeschi, che avevano sfondato a Casamozza, giunsero in vista di Bastia.

A mezzogiorno del 13 settembre gli artiglieri italiani, ancora una volta gli uomini della Divisione Friuli, avvistarono la testa delle colonne nemiche in avvicinamento e iniziano a sparare. I tedeschi fecero fuoco di controbatteria e si lanciarono sulla città. L’offensiva, come quella su Casamozza, fu spietata: la Divisione Friuli venne sopraffatta, il panico prese il sopravvento e le truppe italiane abbandonarono il campo di battaglia.

A fine giornata, Bastia era tornata in mani tedesche. Il generale Magli, furioso, forse ingiustamente, per la debole resistenza dei soldati italiani, affidò queste parole ai suoi diari: “A sera Friuli sopraffatta – Bastia circa 19.30 occupata dai tedeschi il “Caporetto” della Friuli! Incapacità del comandante”. Il giorno dopo incontrò il generale Cotronei, che guidava la Friuli, mentre coi superstiti si stava ritirando verso Calvi, sulla costa nord-occidentale dell’isola. Magli, indicano i suoi appunti, lo trovò “disfatto”.

Nel frattempo, il comando nazista si era stabilito a Bastia. Come prima cosa, i soldati tedeschi saccheggiarono la città per tre giorni, desiderosi di vendicarsi per il ruolo svolto dai partigiani corsi a fianco degli italiani e per la pubblicazione di manifesti pro-Alleati stampati dal sindaco Gherardi. I cittadini che non erano ancora fuggiti cercarono a quel punto, per quanto possibile, di abbandonare la città. Alcuni presero la via dei monti, altri raggiunsero fortunosamente parenti e amici nei villaggi circostanti.

Mio nonno e le truppe del 10° Raggruppamento Celere, scosse dopo il loro primo scontro con la 90° Divisione Panzergrenadier, attendevano trepidanti gli ordini di Magli, tentando nel frattempo di prevedere cosa sarebbe successo. Restare lucidi non era facile: mio nonno sentiva che la paura gli serpeggiava intorno alle gambe e doveva combatterla per non farla risalire verso la gola. Se fosse arrivata fin lì, gli avrebbe mozzato il respiro e sarebbe diventata un terrore paralizzante.

Qualche giorno dopo, il 17 settembre, von Senger und Etterlin chiese a Magli la restituzione dei prigionieri tedeschi, minacciando di fucilare 10 italiani per ogni tedesco se la sua richiesta fosse stata respinta. Magli non si lasciò intimidire e negoziò uno scambio alla pari, che il comando nazista accettò. Ma ancora una volta la parola data non venne mantenuta: tutti i tedeschi vennero infatti liberati, mentre gli italiani recuperarono solo metà dei loro prigionieri. E solo due giorni dopo, ad unire infamia all’insulto, Corte venne bombardata dalla Luftwaffe con l’evidente tentativo di eliminare Magli. Il generale italiano ne uscì illeso, ma alcuni soldati a guardia del quartier generale vennero feriti.

La situazione comunque era entrata in una fase di stallo. I tedeschi non erano infatti riusciti a penetrare all’interno e raggiungere Corte, ma d’altra parte gli italiani non avevano più la forza di riconquistare Bastia e di raggiungere la strada costiera nella parte orientale dell’isola.

A sbloccarla ci pensarono sia Hitler che gli Alleati.

In primo luogo, Hitler ordinò alle sue unità in Corsica di spostarsi in Italia, per contrastare l’avanzata alleata lungo la penisola. Un piano di evacuazione a partire dal porto e dall’aeroporto di Bastia venne quindi approntato e le truppe tedesche iniziarono a muoversi verso nord, sgomberando progressivamente la parte meridionale e centrale dell’isola. L’aeroporto di Ghisonaccia, da cui si era sviluppata l’offensiva che l’unità di mio nonno aveva fermato il 12 settembre, venne abbandonato nella notte tra il 25 e il 26, mentre le città di Porto Vecchio e Bonifacio erano state ricatturate dagli uomini della Divisione Cremona due giorni prima.

Un goumier francese

Allo stesso tempo, tra il 14 settembre ed il primo di ottobre, la marina alleata fece sbarcare ad Ajaccio truppe francesi provenienti dall’Africa. Le operazioni di trasporto avvennero sotto il continuo fuoco della Luftwaffe, che riuscì ad affondare almeno una nave da trasporto carica di soldati. Gli uomini in arrivo, inquadrati nel 2° Raggruppamento marocchino, nella 4° Divisione di montagna marocchina e nel 1° battaglione paracadutisti, erano nella massima parte truppe coloniali, meglio conosciute come goumiers (dall’arabo qum, che significa “squadrone, banda”). Gli alleati intendevano utilizzarle per un assalto italo-francese delle postazioni tedesche e per la liberazione di Bastia. L’operazione sarebbe stata guidata dal generale francese Louchet.

In preparazione dell’offensiva su Bastia, gli Alleati bombardarono l’aeroporto della città il 29 settembre, rendendolo impraticabile. Costretti a servirsi unicamente del porto per le operazioni di evacuazione, i tedeschi si disposero a difenderlo fino alla fine.

Il piano d’attacco alleato prevedeva una manovra a tenaglia. I goumiers e i sopravvissuti della Friuli avrebbero attaccato dalle montagne a nord-ovest, mentre altre unità italiane sarebbero avanzate su Bastia lungo la strada costiera proveniente da sud, per costringere i tedeschi a combattere su due fronti.

La Corsica del nord-est. Bastia é visibile in alto, Casamozza alla base della mappa. Il punto rosso indica la posizione del colle di Teghime

Nei giorni precedenti l’attacco, le artiglierie italiane bombardarono ripetutamente le posizioni tedesche intorno alla città. L’assalto finale si sviluppò dall’1 al 4 ottobre. Gli italo-francesi in avvicinamento da nord-ovest vennero contrastati dai tedeschi ma riuscirono a sloggiarli dai loro bunkers sul colle di Teghime, che domina l’accesso a Bastia. Dopo aver perso la città il 13 settembre, gli uomini della Friuli si batterono con coraggio in questo frangente, trovando modo di riscattarsi. Nel 1957, un monumento venne eretto sulla cima della collina a ricordo di questa battaglia. Ma del contributo italiano non v’è traccia: solo i goumiers francesi sono menzionati sulla lapide commemorativa.

La sera del 3 ottobre la città di Bastia era ormai gravemente danneggiata ed in fiamme, dopo essere stata ripetutamente colpita dalle artiglierie italo-francesi. Ma ormai gli ultimi superstiti tedeschi, stretti nella morsa alleata, la stavano abbandonando, dopo aver distrutti i mezzi e i materiali che non erano riusciti ad imbarcare. All’alba del 4 ottobre, un plotone di bersaglieri motociclisti proveniente da sud riuscì a penetrare per primo all’interno della città. Quando il comando italiano ne ebbe notizia lo richiamò immediatamente e lo fece ritirare. Gli accordi con gli Alleati prevedevano infatti che la liberazione di Bastia avvenisse unicamente per mano francese e che i goumiers sarebbero quindi sfilati per primi per le sue strade.

Grazie al contributo italiano e a quell’inaspettata ma efficace co-belligeranza con gli ex nemici, la Corsica divenne il primo territorio francese ad essere completamente liberato. All’isola vennero quindi risparmiate le vessazioni naziste che investirono nei mesi successivi altre regioni della Francia e dell’Italia occupata. Il conto finale fu comunque salato. I combattimenti di quei giorni costarono circa un migliaio di morti sia ai tedeschi che al contingente italo-francese, probabilmente di più, oltre che centinaia di feriti da ambo le parti. Mio nonno ne uscì illeso.

Il generale Von Siegler und Etterlin lasciò la Corsica alle 23 del 3 ottobre, su una delle ultime navi in partenza dall’isola. Prima di andarsene, si era rifiutato di obbedire all’ordine di Hitler di fucilare i prigionieri italiani che avevano combattuto contro i tedeschi. Il suo caso di insubordinazione verrà archiviato dai nazisti il 5 ottobre ed il generale continuerà a combattere gli Alleati in Italia durante tutta la guerra di liberazione, guidando il XIV Corpo Corazzato fino alla resa nel 1945.

Mezzi della 90° Divisione Panzergrenadier

I superstiti della Wehrmacht che avevano combattuto in Corsica raggiunsero invece l’Italia attraverso gli aeroporti di Pisa, Lucca e Pratica di Mare, nonché tramite i porti di Livorno e Piombino. L’aviazione alleata, che si era organizzata presso l’aeroporto di Ajaccio, continuò ad inseguirli lungo tutto il tragitto, riuscendo in quei giorni ad abbattere 55 aerei tedeschi.

Quando giunse in Italia, la 90° Divisione Panzergrenadier venne rinforzata e schierata sulla linea Gustav. Mio nonno l’avrebbe ritrovata lì: dall’altra parte del fronte durante la battaglia di Cassino. Incalzata dagli Alleati, venne definitivamente distrutta nel 1945 a sud di Bologna.

Uomini della 16° Divisione Panzergrenadier Reichsfuhrer SS

La Brigata meccanizzata SS Reichsfuhrer venne invece trasformata in 16° Divisione Panzergrenadier Reichsfuhrer SS ed impiegata nel contenimento dello sbarco alleato ad Anzio. Nel corso della sua ritirata attraverso l’Italia, si macchiò poi di efferati delitti. L’incubo iniziò nell’agosto 1944, quando la Divisione si rese responsabile degli eccidi di Nozzano (59 morti), Sant’Anna di Stazzema (560 morti) e Vinca (170 morti). Il mese successivo, effettuò il rastrellamento della Certosa di Farneta, i cui prigionieri vennero poi trucidati. Fu quindi la volta di Bergiola Foscalina ed infine Marzabotto, dove tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 vennero uccise 770 persone. A febbraio del 1945, la Divisione venne spostata sul fronte ungherese per contenere i sovietici. Si ritirò fino a Klagenfurt e lì si arrese agli inglesi, nel maggio del 1945. In Corsica, mio nonno si era trovato faccia a faccia con un pezzo di inferno.

Il XXXIII battaglione bersaglieri ciclisti non prese parte all’ultimo assalto a Bastia, essendo stato schierato in seconda linea. Entrò però in città subito dopo l’ingresso delle truppe francesi, seguendo i reparti che avevano respinto i tedeschi fin sui moli del porto. Le strade erano ovunque disseminate di mezzi distrutti, spesso con cadaveri carbonizzati ancora intrappolati tra le lamiere. L’odore di sangue, carne bruciata e morte aveva impregnato l’aria. Più di qualcuno nel plotone di mio nonno si fermò per vomitare prima di proseguire la marcia.

La città era ridotta ad un cumulo di macerie. Oltre alla distruzione causata dell’artiglieria alleata, ci avevano infatti pensato i tedeschi, che poco prima di lasciarla avevano applicato alla perfezione la loro strategia della terra bruciata. Quando le truppe italo-francesi raggiunsero il centro di Bastia trovarono la stazione radio, le infrastrutture portuali e le centrali elettriche, idriche e del gas completamente rase al suolo.

Avanzando all’interno della città, mio nonno ed i suoi uomini si imbatterono anche nelle salme in avanzato stato di decomposizione dei soldati italiani caduti nei combattimenti del 13 settembre, quando i tedeschi avevano ripreso la città. I cadaveri erano riversi per strada, lì dove erano stati ammazzati: nessuno si era ancora dato cura di spostarli o seppellirli.

Mezzi tedeschi distrutti sulla strada verso Bastia

In prossimità del porto si accumulavano anche i corpi dei soldati tedeschi uccisi durante la ritirata. Tra loro, sdraiati a terra o seduti, c’erano anche alcuni feriti, che non erano riusciti a raggiungere le navi in fuga. Attendevano in silenzio qualcuno che li soccorresse, o aspettavano rassegnati la morte.

In quel paesaggio di distruzione, mio nonno camminava lentamente, mettendo un piede in fila all’altro con attenzione, come per restare estraneo alla scena dovesse evitare ogni rumore inutile. Dopo il suo battesimo del fuoco, aveva sentito sbocciare dentro di lui un sentimento nuovo, un odio così puro e profondo nei confronti dei tedeschi che aveva deciso di coltivarlo. Rendere più forte quell’odio l’avrebbe protetto e fatto tornare a casa, pensava.

Ma ora che si guardava intorno in quel mattino di ottobre non riusciva a rimanerci aggrappato. Si sentiva il petto schiantato e improvvisamente tutto il furore che era montato dentro di lui nei giorni precedenti l’aveva abbandonato, lasciando il posto ad un vuoto senza redenzione che stava mangiando l’anima a tutti i presenti, inclusa la sua.

Raggiunto un incrocio, scorse con la coda dell’occhio un soldato tedesco ferito, appoggiato con la schiena all’angolo di una strada. Se ne rese conto perché il soldato lo stava guardando. Aveva un ampio squarcio rosso sul fianco, che copriva a malapena con una mano. Lo guardò per un attimo e si rese conto che non sarebbe vissuto ancora a lungo.

“Vai avanti con gli altri”, disse a Borghi che era al suo fianco. “Vi raggiungo tra poco”.

Il suo attendente lo guardò interdetto per qualche secondo, poi si portò la mano all’elmetto per salutarlo e proseguì in silenzio lungo la strada.

Mio nonno fece due passi verso il tedesco, che continuava a fissarlo. Mentre si avvicinava, si tolse l’elmetto e vide che l’altro aveva faticosamente alzato una mano e l’aveva portata alla bocca, mimando il gesto di fumare. Mio nonno si fermò per guardarlo un istante negli occhi. L’uomo che fino a poco prima era stato un suo mortale nemico aveva uno sguardo da cui era ormai colata via ogni emozione. Non restava nulla: nemmeno la tristezza. Sembrava semplicemente stanco, di una stanchezza in bilico su un vuoto impenetrabile.

Mio nonno si frugò nelle tasche e tirò fuori due sigarette. Le accese entrambe, si sedette di fianco al tedesco e gliene mise una in bocca. Mentre aspirava il fumo, sentì il corpo del soldato appoggiarsi alla sua spalla. Si spinse di qualche centimetro verso di lui, per sostenerlo meglio e incoraggiarlo a rilassarsi. Guardandolo in silenzio con la coda dell’occhio, vide che stava fumando lentamente, muovendosi il meno possibile, gli occhi puntati chissà dove. Dopo qualche altra boccata, la mano del tedesco cadde sulla strada e mio nonno sentì che il suo corpo aveva improvvisamente perso forma.

Alzandosi in piedi, lo afferrò da sotto le braccia e lo adagiò a terra. Restò di fianco a lui a fissarlo per qualche istante, immobile e senza respirare. Poi raccolse l’elmetto, gettò la sigaretta e si rimise in cammino verso la sua unità.

Ricordo quando mi aveva raccontato questo episodio, una delle rare volte in cui non aveva addolcito le sue storie di guerra per le mie orecchie di ragazzo. I suoi occhi erano scomparsi e per un attimo erano diventati due buchi neri senza fondo.

I combattimenti che lo aspettavano in Italia non avrebbero conosciuto simili episodi di pietà umana.

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