10. Quel che rimane57 min read

Lo scioglimento del CIL

Appena i soldati italiani raggiunsero l’area di raccolta a sud di Macerata vennero accolti dall’annuncio dello scioglimento del CIL.

Il Generale Browning

Il generale Browning, capo della sottocommissione di controllo alleata per l’esercito, andò infatti a visitarli di persona il 30 agosto del 1944 e li informò della decisione presa con queste parole: “L’esercito italiano è stato di grande aiuto alla causa alleata (…). Voi del CIL avete combattuto bene ed avete subito delle perdite (…). Sono lieto di potervi informare che il generale Alexander ha richiesto del materiale inglese per riarmare e riequipaggiare una più grande aliquota dell’esercito italiano. È già attualmente in corso la preparazione delle divisioni Friuli e Cremona (…). Avete reso un gran servizio all’Italia. Se voi non aveste combattuto bene, il generale Alexander non avrebbe mai chiesto ai governi alleati di costituire una più numerosa forza combattente italiana. Ciò è una bella soddisfazione per voi e per l’Italia”.

Molti soldati avevano trattenuto il fiato ascoltando l’inizio di quel discorso, sperando forse che Browning fosse venuto ad informarli che il loro tempo sotto le armi era finito e che sarebbero presto tornati a casa. Ma così non sarebbe andata.

Gli Alleati avevano infatti deciso di ampliare il contingente italiano, di riarmarlo e riaddestrarlo con equipaggiamento interamente inglese e di inquadrarlo in divisioni completamente nuove denominate Gruppi di Combattimento. Queste unità sarebbero poi state inserite nei Corpi d’Armata americani o britannici per continuare la lotta, in un momento in cui le operazioni sul fronte occidentale stavano costringendo gli Alleati a spostare sempre più unità dall’Italia alla Francia.

Quando Browning si rivolse agli uomini del CIL si sforzò di essere lusinghiero e diplomatico. Ma a nessuno sfuggì il fatto che con la ristrutturazione annunciata i Gruppi di Combattimento sarebbero stati diluiti all’interno delle armate alleate senza che nessun esercito italiano fosse più identificabile al fronte. Gli italiani non avrebbero più combattuto tutti insieme e i loro successi non sarebbero più stati il frutto unicamente del loro sforzo. Mio nonno e gli altri soldati si guardarono l’un l’altro in silenzio, mentre la speranza ed il compiacimento iniziale lasciavano il posto all’amarezza. Pur con tutte le difficoltà incontrate in quei mesi, il CIL era diventato la loro casa ed il pensiero di doverla abbandonare e di separarsi dai compagni di quei mesi di sofferenza li fece sentire come un mazzo d’erba strappato alla terra e gettato al vento.

In quei giorni sospesi Utili si strinse ai suoi uomini e cercò di rincuorarli. Camminò spesso tra loro, lasciando che le sue mani stringessero spalle ed accarezzassero volti, mentre tentava di spiegare che la decisione alleata era dettata solamente dalle esigenze della guerra e che non doveva essere interpretata come una punizione o una dimostrazione d’indifferenza. Ma il tempo che gli venne concesso non fu molto.

Lo scioglimento ufficiale del CIL venne infatti fissato per il 25 settembre. Il giorno prima, Utili decise quindi di accomiatarsi definitivamente dai suoi uomini. Per farlo, scelse queste parole: “Il CIL si scioglie per necessità superiori. Non si scioglie né, credo, si scioglierà mai nei nostri cuori il patrimonio comune delle vicende nobili e dure che abbiamo vissute insieme (…). Io sono certo che tutti noi che appartenemmo al CIL ci riconosceremo sempre fratelli e ci tenderemo sempre la mano incontrandoci, comunque la sorte materiale di ognuno possa essere nel futuro diversa e diverso il cammino spirituale di ognuno”. Fu un saluto commovente. E nel riceverlo a tutti parve che nemmeno la guerra fosse riuscita a proteggerli dalle esigenze della vita, che finisce sempre per scagliare le persone su strade diverse e destinate a non intersecarsi più.

Lo stesso mese, il morale del contingente italiano venne scosso anche da un altro evento. Fucci, ufficiale ormai leggendario, comandante dei bersaglieri fin dai tempi della Corsica e negli ultimi mesi guida di quella che era stata la prima brigata del CIL, si stava spostando nelle retrovie a bordo della sua jeep quando improvvisamente saltò sull’ennesima mina tedesca. La distanza dal fuoco della prima linea non era evidentemente stata sufficiente a proteggerlo.

L’esplosione fu violentissima e Fucci venne estratto dai rottami del suo veicolo distrutto gravemente ferito. Dopo una lunga lotta, riuscì miracolosamente a sopravvivere restando aggrappato alla vita con le unghie, ma perse entrambe le gambe ed ogni possibilità di contribuire agli ultimi eventi della guerra. Con grande rammarico di tutti, Utili incluso, venne costretto ad una degenza di circa un anno, che gli permise di lasciare l’ospedale solo ad ostilità già cessate.

Ettore Fucci – @ Barletta Viva

Fucci rimarrà nell’esercito per il resto della sua vita e si congederà col grado di generale di Corpo d’Armata, venendo poi insignito nel 1960 della onorificenza di Grande Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Dopo la morte, che lo raggiunse a Napoli nel 1980, la città natale di Barletta gli dedicherà una targa commemorativa nei giardini del castello svevo.

Un destino analogo toccò a Kesselring il mese successivo, quando fu vicino a perdere la vita in uno scontro tra la sua auto ed un cannone semovente. Evacuato e costretto a diversi mesi di cure, rientrerà in servizio solo nel marzo del 1945, quando Hitler lo nominerà comandante in capo del fronte occidentale, nel disperato tentativo di contenere la dilagante offensiva alleata. L’uomo che aveva trasformato per mesi l’Italia in una trappola mortale per gli Alleati venne alla fine rimosso dalla scena da un banale incidente stradale.

Quando il CIL venne definitivamente sciolto, i soldati italiani iniziarono a lasciare Macerata per essere riassegnati ai futuri Gruppi di Combattimento. Mio nonno ed i bersaglieri del 4° Reggimento vennero quindi trasferiti prima ad Assisi, poi, via treno, fino allo scalo di Vairano nel casertano. Da qui, raggiunsero a bordo di autocarri Piedimonte d’Alife, anch’esso in provincia di Caserta, dove si fermarono in attesa di ordini.

Mentre venivano trasferiti, il generale Messe, capo di stato maggiore generale dell’Esercito Cobelligerante Italiano, venne informato dei progetti alleati, che guardavano ben oltre la liberazione dell’Italia. Il piano prevedeva infatti la creazione di dodici Gruppi di Combattimento, che sarebbero stati schierati prima contro la Germania e poi contro il Giappone, per costringere alla resa incondizionata anche l’ultima forza dell’Asse. La carneficina causata dalle due bombe atomiche sganciate dagli americani taglierà poi corto questo disegno, che avrebbe costretto gli italiani e gli altri eserciti alleati ad un’invasione anfibia del Giappone in confronto alla quale lo sbarco in Normandia sarebbe apparso come un’operazione di poco conto. Il tributo di sangue necessario per chiudere definitivamente quell’orgia di follia che era stata la guerra verrà quindi pagato da circa 200.000 civili giapponesi. Nei due bagliori di Hiroshima e Nagasaki trovarono la morte più persone della totalità delle perdite registrate da tedeschi ed Alleati in cinque mesi di furiosi combattimenti sulla linea Gustav ed intorno ad Anzio.

Le operazioni sulla linea Gotica

Mentre il contingente italiano veniva riassegnato alle sue nuove unità, gli Alleati iniziarono a misurarsi con la linea Gotica.

A quel punto della guerra, gli anglo-americani erano ormai in netto vantaggio numerico sui tedeschi e potevano contare su un dominio pressocché incontrastato dei cieli. I loro bombardieri avevano devastato a tal punto la rete viaria del nord Italia che Hitler non avrebbe potuto rifornire efficacemente le sue unità o ritirarle dal fronte neanche se lo avesse voluto. E le retrovie tedesche erano infestate da un esercito di circa 80.000 partigiani che le gettavano regolarmente nello scompiglio.

Nonostante tutto, l’esercito tedesco non dava segni di voler capitolare. L’offensiva alleata sulla linea Gotica venne quindi lanciata appena questa venne raggiunta nell’agosto del 1944, nella speranza che le ultime settimane d’estate sarebbero state sufficienti per travolgerla e chiudere definitivamente la partita. Gli inglesi vennero scagliati sulle difese nemiche lungo la costa adriatica, mentre gli americani iniziarono una difficile avanzata attraverso la parte centrale degli Appennini. I tedeschi barcollarono sotto il violento urto alleato e furono alla fine costretti ad abbandonare i loro bunkers e le loro trincee. Ma riuscirono comunque ad evitare la disfatta.

Anche se la linea Gotica venne superata, gli Alleati non fecero infatti in tempo a raggiungere la val Padana prima dell’arrivo dell’inverno. Le condizioni atmosferiche avverse e la strenua resistenza del nemico li inchiodarono quindi nuovamente tra le montagne, dove nell’ottobre furono costretti a gettare la spugna. Pur essendo ormai in vista della pianura, si risolsero a trascorrere un altro lungo inverno di attesa tra quei monti inospitali, preparandosi per quella che sarebbe stata l’offensiva finale dell’aprile del 1945.

Quando le operazioni al fronte raggiunsero una fase di stallo e si placarono, il generale Alexander, comandante di tutte le forze alleate in Italia, si aggrappò al microfono di radio “Italia combatte”, che era usata dal comando anglo-americano per contattare le formazioni del CLN, e fece un annuncio destinato a diventare tristemente famoso.

Nel tardo pomeriggio del 13 novembre si rivolse infatti ai partigiani che operavano dietro le linee nemiche e chiese loro la cessazione di ogni attività su vasta scala ed il ritiro su postazioni difensive, annunciando che gli Alleati avrebbero fatto altrettanto durante l’inverno. Quel giorno, numerosi rappresentanti della resistenza si ritrovarono ad ascoltare esterrefatti queste parole: “Patrioti! La campagna estiva (…) è finita: inizia ora la campagna invernale (…). Le piogge e il fango non possono non rallentare l’avanzata alleata, e i patrioti devono cessare la loro attività precedente per prepararsi alla nuova fase di lotta e fronteggiare un nuovo nemico, l’inverno. Questo sarà molto duro per i patrioti, a causa della difficoltà di rifornimenti di viveri e di indumenti: le notti in cui si potrà volare saranno poche nel prossimo periodo, e ciò limiterà pure la possibilità di lanci”. Alexander proseguì poi dicendo che era ormai necessario “conservare le munizioni e i materiali e tenersi pronti per nuovi ordini”, anche se restava possibile “approfittare (…) delle occasioni favorevoli per attaccare tedeschi e fascisti”.

Quel messaggio, consegnato alla storia come il cosiddetto proclama Alexander, centrò l’infelice obiettivo di risultare sia sconsiderato nei contenuti, perché il nemico lo intercettò facilmente riuscendo così ad anticipare le intenzioni degli Alleati per i mesi successivi, che imperioso nei toni. Chi voleva continuare la lotta, come il vicecomandante del Corpo Volontari della Libertà Luigi Longo, si mise le mani tra i capelli, temendo che gli italiani avrebbero interpretato il comunicato come un invito a desistere e a tornarsene a casa. Cosa che infatti almeno in parte accadde, dato che si stima che gli effettivi partigiani calarono da 80.000 a circa 50.000 verso la fine del ’44. Il tutto facilitato dal fatto che i tedeschi, sicuri che gli Alleati non li avrebbero attaccati fino alla primavera, si sentirono liberi di concentrarsi quasi esclusivamente sulla repressione della resistenza, lanciando in quei mesi un numero crescente di rastrellamenti su tutto il territorio ancora sotto il loro controllo. Fu un inverno duro, che costrinse molti partigiani a disperdersi attraverso la pianura padana e che finì per indebolirne sia le fila che il dispositivo insurrezionale a cui avevano da tempo lavorato.

È comunque molto probabile, viste le conseguenze del suo annuncio, che Alexander non avesse veramente intenzione di causare tanti danni e che sia stato semplicemente travisato. In una lettera di quei giorni al suo diretto superiore, sir Henry Maitland Wilson, comandante supremo alleato nel Mediterraneo, aveva infatti scritto: “Considero importante che venga fatto tutto il possibile per aumentare il lancio di rifornimenti ai partigiani italiani in modo da consentire loro di effettuare il massimo sforzo in collegamento con le mie operazioni offensive”.

Probabilmente il suo fu soltanto un maldestro tentativo di coordinare le azioni alleate con quelle dei partigiani, o di non generare false aspettative circa un’imminente liberazione tra le popolazioni del nord Italia. Stupisce comunque che un comandante di così grande importanza ed esperienza sia potuto incappare in un errore di comunicazione così grossolano durante una congiuntura tanto critica.

Ad ogni modo, i giorni di Alexander alla guida dell’esercito alleato in Italia erano ormai contati. Nel gennaio del 1945 fu infatti nominato comandante dell’intero scacchiere mediterraneo e venne sostituito dal generale Clark, che prese in mano le truppe attestate sugli Appennini col compito di dare al più presto la spallata finale all’esercito tedesco.  

Pochi giorni dopo, nel febbraio, Stalin, Roosevelt e Churchill si riunirono a Yalta. Fu un incontro molto diverso da quello che avevano precedentemente avuto a Teheran nel novembre del 43. All’epoca Stalin era apparso quasi un comprimario. Ma questa volta, con l’armata rossa ormai lanciata verso Berlino ed il Regno Unito esausto dopo anni di guerra, fu Churchill ad essere messo in ombra. Durante la riunione venne discussa nei dettagli la carta geografica dell’Europa post-bellica e venne approvato il progetto di costituzione dell’ONU, fortemente sostenuto da Roosevelt. Venne anche stabilito che alla fine delle ostilità tutti i paesi avrebbero tenuto libere elezioni. Ma Churchill capì, senza poterlo evitare, che Stalin non avrebbe rispettato quell’impegno.

Churchill, Roosevelt e Stalin a Yalta

L’Europa uscì quindi da Yalta destinata alla lunga contrapposizione della guerra fredda. Un intervento di Roosevelt avrebbe forse potuto cambiare la dinamica di quell’incontro e modificare la traiettoria della storia. Ma il presidente americano, da sempre un fumatore accanito, era un uomo malato ormai da molto tempo, che non ebbe la forza, la lungimiranza o il desiderio di usare le sue ultime energie per combattere Stalin. Nelle foto che lo ritraggono in quei giorni sembra che i vestiti che indossa lo sommergano, mentre il suo corpo scavato sparisce lentamente tra le loro pieghe. Morirà per un’emorragia cerebrale qualche settimana dopo, il 12 aprile 1945, senza poter vedere la fine della guerra ed il trionfo degli Alleati.

L’offensiva finale

L’assalto finale degli anglo-americani alle linee tedesche in Italia venne inizialmente fissato per il 9 aprile del 1945. L’obiettivo principale era quello di travolgere il nemico prima che potesse ritirarsi dall’altra parte del Po, superato il quale nessuna ulteriore linea difensiva avrebbe potuto essere tracciata prima delle Alpi.

Le cattive condizioni atmosferiche fecero rinviare l’offensiva fino al 14 aprile. Quando finalmente venne lanciata, i tedeschi tennero duro per tre giorni, nonostante le condizioni ormai disperate in cui si trovavano. Lo sfondamento finale venne quindi operato solo il 17 aprile, quando gli Alleati riuscirono ad affacciarsi sulla via Emilia, una linea retta che taglia la pianura padana come un colpo di spada unendo Rimini a Milano. Compiuto quel passo, la presa di Bologna divenne inevitabile.

Quando le operazioni vennero lanciate solo sei Gruppi di Combattimento, degli originari dodici, erano già stati approntati: il Legnano, il Cremona, il Friuli, il Folgore, il Piceno ed il Mantova, anche se quest’ultimo non fece in tempo a prendere parte ai combattimenti. Uniformi, elmetti, automezzi ed armi erano interamente inglesi e tutti i soldati italiani erano quindi stati addestrati al loro utilizzo nei mesi precedenti, con cicli di esercitazioni che erano durati dalle 12 alle 17 settimane. A distinguere gli italiani dai soldati britannici, ormai in tutto e per tutto identici, rimasero quindi solo le mostrine del corpo di appartenenza sul bavero del giubbetto ed un piccolo tricolore cucito sul braccio sinistro.

Tra gli italiani confluiti nei Gruppi di Combattimento non c’erano comunque solo i reduci del CIL. Migliaia di volontari si erano infatti presentati in quei giorni per ingrossarne le fila e contribuire allo sforzo finale degli Alleati. Molti di questi erano soldati sbandati dell’esercito regio o partigiani. Da quale parte la maggioranza degli italiani volesse combattere il resto della guerra era ormai chiaro da molti mesi.

Tra tutti i Gruppi di Combattimento, il Legnano fu quello che per primo salì alla ribalta delle cronache. Guidato dal generale Utili, venne costituito sulla base di varie formazioni del CIL: il IX Reparto d’assalto, il 68° reggimento fanteria ed altre unità di bersaglieri ed alpini. Inviato in prima linea sugli Appennini centrali alla fine del marzo 1945, quando l’offensiva d’aprile venne lanciata puntò dritto su Bologna, in cui entrò trionfante il 21. Prendere la città fu per Utili l’emozione più grande della vita, che custodì gelosamente per il resto dei suoi giorni.

Il Legnano proseguì poi la sua avanzata raggiungendo Brescia il 29, Bergamo il 30 e Torino il 2 maggio, quando le ostilità cessarono ufficialmente. Registrò in tutto 55 morti e 279 feriti.

Utili sopravvisse agli scontri e rimase nell’esercito anche dopo la guerra. A portarselo via ci pensò un infarto nel 1952, quando aveva 57 anni. Da allora riposa al cimitero militare italiano di Mignano Monte Lungo, insieme a centinaia di quelli che furono, in quegli anni, i suoi uomini. Commentando le privazioni che avevano patito con lui durante la guerra di liberazione, ed il limitato riconoscimento che avevano raccolto durante e dopo le ostilità, Utili aveva dichiarato: “Non ho mai visto altri soldati che si rassegnassero a fare la guerra in queste condizioni e che avessero alle spalle gente così dimentica e così indifferente alle loro privazioni”.

Il Friuli era l’erede di quella divisione Friuli che si era distinta in Corsica durante i combattimenti in cui era stato coinvolto anche mio nonno. Venne schierato al fronte nel febbraio 1945 nell’area di Brisighella, in provincia di Ravenna, dove respinse subito un contrattacco tedesco. Durante l’offensiva di aprile avanzò lungo la via Emilia e liberò Bologna insieme al Legnano. Nei combattimenti riportò 242 caduti, 657 feriti e 61 dispersi.

Il Folgore venne costituito a partire dalla Divisione Nembo e dal Reggimento San Marco del CIL. Raggiunse il fronte nel marzo del 1945 e venne impegnato per facilitare l’avanzata del Friuli verso Bologna. Registrò 164 caduti, 244 feriti e 14 dispersi.

Il Cremona invece, come il Friuli, nacque dal riordinamento dell’omonima divisione che aveva combattuto in Corsica e accolse, caso più unico che raro, l’intera brigata partigiana “Mario Gordini”, di matrice comunista. Il comandante della fanteria del Cremona, generale Zanussi, così sintetizzò i rapporti tra soldati e partigiani all’interno delle stesse fila: “Fin che s’era in combattimento, bene; fuori, male”. Fortunatamente, le divergenti opinioni politiche non fecero perdere di vista l’obiettivo finale e combattere i nazifascisti rimase sempre la priorità principale per tutti.

Appena costituito, il Cremona venne inquadrato all’interno del Corpo Canadese ed inviato al fronte nel gennaio del 1945. Schierato tra la costa adriatica e Alfonsine in provincia di Ravenna, respinse vari contrattacchi tedeschi e nel marzo iniziò a muovere verso le paludi di Comacchio. Successivamente, venne incaricato di puntare dritto verso nord con obiettivo Ariano nel Polesine, il paese natale di mio nonno, mentre sul suo fianco sinistro, lungo la direttrice Ferrara-Rovigo-Padova, avanzava la 56° divisione britannica. Il Polesine, che dopo aver dato i natali a Matteotti aveva subito le violenze dello squadrismo fin dagli albori del fascismo, avrebbe dovuto sopportare il giogo della guerra e dell’occupazione fino agli ultimi giorni di combattimento.

A fronteggiare il Cremona erano schierati elementi della 162° divisione di fanteria tedesca “Turkmenistan” ed una brigata di repubblichini. La 162° era composta quasi interamente di soldati di origine caucasica e turkmena, reclutati tra i prigionieri di guerra e i disertori dell’Armata Rossa. L’esercito tedesco stava ormai evaporando. Alla fine delle ostilità, i sopravvissuti della 162° si consegneranno agli Alleati nei pressi di Padova. Restituiti prontamente all’Unione Sovietica, verranno quasi tutti condannati a molti anni di lavori forzati nei gulag siberiani per aver combattuto col nemico.

L’area di operazioni del Cremona

Quando il Cremona iniziò la sua offensiva sul Polesine, riuscì ad entrarvi attraversando il Po di Goro grazie ad un ponte che il nemico in ritirata non era riuscito a distruggere completamente. Giunto dall’altra parte però, venne bersagliato con colpi di armi automatiche e di artiglieria, inclusi i temibili cannoni 88 tedeschi. Ariano venne quindi presa non senza difficoltà tra il 23 ed il 24 aprile, dopo uno scontro che costrinse il Cremona a lasciare sul campo 2 morti e 8 feriti.

Quando gli Alleati iniziarono a dilagare nel Polesine, i tedeschi vollero portare a termine almeno un’ultima vendetta prima di ritirarsi definitivamente. Il 25 aprile allinearono quindi al muro del cimitero di Villadose venti partigiani precedentemente catturati a Ceregnano, in località Palà, e li falciarono a colpi di fucile. Completata l’operazione, spararono anche ai due militi repubblichini che li avevano assistiti nell’esecuzione. Il colore politico non contava ormai più nulla: ciò che importava era solo ammazzare qualche italiano in più prima che il cessate il fuoco finale lo rendesse definitivamente impossibile.

Il Cremona aveva nel frattempo completato l’attraversamento del Po anche grazie a diversi pontili costruiti con l’aiuto della popolazione locale. Adria e Loreo vennero quindi facilmente raggiunti il 26 aprile, mentre Cavarzere, un paese a ridosso del fiume Adige, divenne il teatro di uno degli ultimi sanguinosi scontri della guerra. Il nemico vi si era infatti asserragliato con mitragliatrici, mortai e cannoni semoventi, ed aveva attirato il Cremona in quella che era rapidamente diventata una disperata lotta casa per casa. L’aviazione inglese fu quindi costretta ad intervenire per spazzare via quell’ultimo disperato baluardo difensivo, che cadde dopo essere stato ricoperto di macerie la sera del 27 aprile.

Superato quell’ostacolo, il Cremona non incontrò più alcuna resistenza. Chioggia venne raggiunta il 29 aprile ed i nemici che vi si erano fermati furono fatti prigionieri e costretti a manovrare i loro battelli e rimorchiatori per traghettare le truppe italiane oltre il fiume Brenta. Lo stesso giorno, in serata, il Cremona entrò quindi a Venezia, dove un tricolore venne issato in piazza San Marco mentre la città si abbandonava per le strade ad una festa lungamente attesa. Quando giunse alla fine del suo ciclo operativo, il Cremona aveva registrato 178 caduti, 605 feriti e 80 dispersi.

Per sua fortuna, mio nonno venne assegnato al Gruppo di Combattimento Piceno, che non venne schierato in prima linea. Il motivo per cui gli fu risparmiata la necessità di combattere fino all’ultimo è ormai andato perso nel tempo. Forse fu un caso, o forse fu il risultato di una decisione ragionata di qualche suo superiore, che ebbe il buon cuore di realizzare che mio nonno aveva già passato un periodo sufficientemente lungo al fronte nel corso dei due anni precedenti.

La decisione di inviarlo nelle retrovie deve averlo sicuramente reso felice, anche se questo significò salutare Mazzoni, che aveva conosciuto ormai oltre tre anni prima e che dopo la morte di Borghi gli aveva offerto una spalla cui appoggiarsi. Quando giunse il momento di separarsi restarono un attimo a guardarsi in silenzio, incapaci di trovare parole che non fossero solo di circostanza. Erano stati troppo importanti l’uno per l’altro e quindi si salutarono in fretta, stringendosi le spalle e fissandosi negli occhi con un sorriso appena accennato sulle labbra, prima di girarsi per andare a rincorrere il loro destino in quegli ultimi mesi di guerra. Non si sarebbero più rivisti.

Il Piceno venne costituito ufficialmente il 10 ottobre 1944 sulla base della preesistente divisione Piceno dell’esercito italiano, che era stata schierata a difesa di Brindisi ed era poi stata impiegata in compiti di sicurezza e vigilanza. Inizialmente il Gruppo di Combattimento fornì uomini per compiti logistici e di ordine pubblico. Poi, nel gennaio del 1945, quando divenne chiaro che non sarebbe più stato inviato al fronte, venne trasformato in “centro addestramento complementi per forze italiane di combattimento”.

Mio nonno fu assegnato al Piceno il 27 ottobre 1944. All’epoca il Gruppo di Combattimento era di stanza a Taranto, ma dopo la sua trasformazione definitiva in centro di addestramento venne trasferito a Cesano, vicino al lago di Bracciano in provincia di Roma, in cui ha tutt’ora sede la scuola di fanteria dell’esercito italiano. Mio nonno raggiunse il suo nuovo acquartieramento l’8 gennaio 1945 e rimase lì fino al 16 giugno quando, a guerra ormai conclusa, venne inviato in licenza pre-congedo. Le sue ultime settimane sotto le armi furono quindi spese ad addestrare i soldati che in quei mesi, col Legnano, il Friuli, il Folgore e il Cremona, avrebbero contribuito a dare la spallata finale ai tedeschi.

Conoscendone il carattere, credo che per le nuove leve sia stato l’istruttore che tutti si auguravano di non avere. Ma mi piace pensare che grazie alla sua fermezza qualcuno di quei soldati imparò qualcosa in più e riuscì così a riportare a casa la pelle. Del resto mi sembra improbabile che mio nonno potesse veramente cercare l’amicizia di quei ragazzi. Sarebbero tutti inevitabilmente partiti per il fronte e non credo che volesse rischiare di accumulare altri lutti. Tutto ciò che poteva desiderare ormai era di essere lasciato in pace.

Il congedo permanente gli venne finalmente concesso il 3 luglio 1945, quasi quattro anni esatti dopo la sua partenza per la scuola allievi ufficiali di complemento di Pola, quando la sua odissea era iniziata. Lasciando il campo base di Cesano, lanciò uno sguardo dietro di sé e lo lasciò correre sulle sue strade gremite di uomini in divisa, sui sacchetti di sabbia accumulati agli ingressi e sulle baracche polverose che in quei mesi avevano accolto lui e tanti altri ragazzi. Cercò per un attimo di ripensare all’uomo che era stato prima della guerra, ma fece fatica a riconoscersi. Le sue memorie di quei giorni sembrava venissero da qualcun’altro, vissuto molto tempo prima, in un altro mondo. Ma in fondo non aveva importanza, si disse mentre si sistemava lo zaino sulla schiena rimettendosi a camminare. L’unica cosa che contava ormai era che Ginetta lo aspettava ad Altopascio. E lui doveva trovare un modo di raggiungerla al più presto.

La fine di un mondo

Mentre mio nonno trascorreva le sue ultime settimane all’interno dell’esercito, il mondo che aveva conosciuto fino a quel momento stava crollando un pezzo alla volta.

Travolti dall’offensiva alleata di aprile, molti tedeschi avevano cercato di mettersi in salvo attraversando il Po a nuoto. Ma non venne concesso loro un attimo di tregua. Il 25 aprile infatti le forze partigiane, per quanto indebolite dal proclama Alexander, lanciarono un’insurrezione generale, attaccando il nemico in rotta ovunque. E già il giorno dopo gli americani entrarono a Verona, mentre l’Adige venne scavalcato il 27.

Di fronte a quella disfatta ormai inarrestabile, i generali Wolff, capo delle SS in Italia, e Vietinghoff, che insieme a von Senger und Etterlin avevano rimpiazzato Kesselring alla guida della Wehrmacht sul fronte italiano, decisero di ignorare gli ordini di Hitler di resistere fino all’ultimo uomo e si prepararono a firmare la resa incondizionata.

Dietro le quinte, le trattative per farlo erano iniziate già nel febbraio e avrebbero probabilmente condotto a una fine anticipata della guerra in Italia se non fossero state congelate solo un mese dopo da Himmler, capo delle SS e numero due del regime nazista. Nonostante il suo intervento però, plenipotenziari nominati da Wolff e Vietinghoff riuscirono ugualmente a incontrare gli Alleati alla reggia di Caserta, sede del loro quartier generale in Italia, dove la resa venne finalmente firmata il 29 aprile. Il documento decretò l’inizio del cessate il fuoco per le ore 14 del 2 maggio.

Quando l’esercito tedesco depose le armi, Mussolini era già morto.

Qualche giorno prima, il Duce, ormai in preda al panico, aveva cercato di riparare in Svizzera, ma il consigliere commerciale elvetico a Milano gli aveva fatto sapere che le personalità politiche italiane che si fossero presentate alla frontiera sarebbero state accolte solo previa deliberazione del dipartimento federale. Con gli Alleati che dilagavano e che non avrebbero certo atteso il completamento delle procedure burocratiche svizzere, questa dichiarazione equivaleva di fatto a un rifiuto.

Claretta Petacci che legge “Storia di un anno”, libro pubblicato da Mussolini nel 1944

Chiusa quella porta, un Mussolini ormai quasi del tutto incapace di mangiare e dormire aveva lasciato Salò e il 18 aprile aveva trasferito quel che rimaneva del suo governo a Milano, la città in cui tutto era cominciato e in cui era stato fondato il primo fascio di combattimento. Con lui viaggiava anche Claretta Petacci, sua amante dal 1932 e di 29 anni più giovane di lui. Pur sapendo che restare a fianco di Mussolini era pericoloso, aveva così giustificato la sua scelta alla sorella: “Io seguo il mio destino, che è il suo. Non lo abbandonerò mai, qualunque cosa avvenga”.

Braccato da un panico crescente, il Duce si illuse di poter usare la Chiesa per negoziare la sua resa. Il 25 aprile, mentre intorno a lui esplodeva la sollevazione partigiana, si incontrò quindi con l’Arcivescovo di Milano, Idelfonso Schuster, che aveva organizzato un incontro con delegati del CLN. Poco prima di incontrarli, Mussolini confidò al prelato di volersi ritirare in Valtellina, con un commando di 3.000 fedelissimi, per resistere ancora qualche ora o qualche giorno prima di arrendersi. Dopo un silenzio imbarazzato, l’Arcivescovo gli fece notare che il suo era un proposito irrealizzabile e che in quelle ore non avrebbe potuto trovare neanche 300 sostenitori pronti a battersi per lui. “Forse saranno un po’ di più ma non di molto”, rispose Mussolini con un sorriso triste, “Non mi faccio illusioni”.

Quando arrivarono, i delegati del CLN chiarirono che non erano venuti per trattare alcunché. Avevano un’unica, molto semplice richiesta, e cioè che Mussolini, fascisti e tedeschi si arrendessero subito e senza condizioni. Mussolini si agitò sulla sedia e prese tempo, temendo che l’unico intento dei partigiani fosse di imprigionarlo per poi giustiziarlo. Non aveva tutti i torti.

La sera del 25 fuggì quindi da Milano e raggiunse Como col suo seguito, di fronte al quale aveva sventolato una rivoltella dicendo “A me ci penso io”. Forse stava solo cercando di farsi coraggio.

Incapace però di decidere cosa fare, iniziò a vagare fino a che, nella notte tra il 26 e il 27, si imbatté in un’unità della contraerea tedesca in ritirata, che puntava sull’Alto Adige. Decise quindi di mettersi sotto la loro protezione e per non essere riconosciuto indossò una giacca da caporale ed un elmetto della Wehrmacht.

Pier Luigi Bellini delle Stelle

Il travestimento però non fu sufficiente. La colonna venne fermata il 27 presso il paesino di Musso, sul lago di Como, da un posto di blocco istituito dai partigiani della 52° brigata Garibaldi “Luigi Clerici”, al comando di Pier Luigi Bellini delle Stelle. Durante l’ispezione, la caratteristica fisionomia di Mussolini venne facilmente riconosciuta e il Duce venne prelevato insieme al suo seguito, mentre ai tedeschi venne consentito di proseguire il loro viaggio.

Ritrovatisi in mano ai partigiani, Mussolini e la Petacci vennero spostata da una località all’altra per evitare che cadessero in mano Alleata. Il comando del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI), con sede a Milano e presieduto da Luigi Longo, Emilio Sereni, Sandro Pertini e Leo Valiani, aveva infatti già deciso che in caso di cattura Mussolini doveva essere fucilato. Consegnarlo agli Alleati sarebbe equivalso ad autorizzare un processo ad un ventennio di vita politica italiana e quindi all’intero popolo italiano, dato che separare le responsabilità del dittatore da quelle della nazione sarebbe stato un esercizio quasi impossibile, oltre che doloroso e imbarazzante. Meglio quindi farla finita subito, il più rapidamente e discretamente possibile.

A fine giornata, Mussolini e la Petacci vennero sistemati in una cascina in località Giulino di Mezzegra, in provincia di Como. Fu la prima notte che trascorsero insieme, nonostante fossero amanti da tredici anni. Durante tutto quel periodo, Claretta aveva vissuto delle briciole di tempo gettatele dal Duce, silenziosamente rassegnata a non essere l’unica donna che si avvicendava nel suo letto. Ma in quell’ultima notte disperata furono, l’uno per l’altra, tutto ciò che rimaneva del loro mondo. Forse si parlarono per la prima volta con una sincerità che le priorità della vita avevano sempre reso impossibile, trovando la forza per un ultimo momento di intimità. O forse piansero semplicemente l’uno nelle braccia dell’altra, schiacciati dal rimorso delle occasioni perdute e dagli orrori seminati come un testamento indelebile dietro di sé.

Walter Audisio

La mattina dopo, il 28 aprile, i partigiani Walter Audisio e Aldo Lampredi vennero inviati a completare il lavoro. Partirono all’alba e appena arrivarono Audisio indicò che tutti i prigionieri andavano fucilati immediatamente, con una risolutezza ed una fretta che parve feroce anche ad altri partigiani presenti. Pier Luigi Bellini delle Stelle provò a intercedere almeno per la Petacci, esclamando: “Non ha nessuna colpa!”. Ma Adusio rispose che era “stata consigliera di Mussolini e ha ispirato la sua politica per tutti questi anni. È responsabile quanto lui”. Versione questa che venne successivamente sconfessata sia da Valiani che da Pertini: il CLNAI non aveva mai emanato nessun ordine di fucilazione per Claretta.

Che l’ordine fosse stato dato o no, ormai poco importava. Mussolini e la Petacci vennero quindi messi al muro insieme e fucilati senza troppe cerimonie. Stessa sorte toccò anche agli altri gerarchi arrestati con loro dai partigiani.

La storia non ha mai chiarito chi abbia premuto il grilletto contro il Duce. Forse fu lo stesso Audisio, forse un altro partigiano presente. Alcuni sostennero addirittura che sia stato Luigi Longo, il quale avrebbe raggiunto il luogo di prigionia di Mussolini dopo averne ricevuto notizia per freddarlo personalmente. A distanza di tutti questi anni, il mistero resta tale e probabilmente non verrà mai sciolto.

Dopo le esecuzioni, Audisio ebbe l’idea di caricare i corpi dei giustiziati su un camion, trasportarli fino a Milano e lasciarli a Piazzale Loreto, dove nell’agosto dell’anno precedente 15 partigiani erano stati fucilati e poi esposti al pubblico per un’intera giornata, coperti di sangue e di mosche. Dopo essere stati scaricati nel luogo prescelto, alcuni dei cadaveri vennero quindi issati a testa in giù, tra cui quelli di Mussolini e della Petacci, e dati in pasto alla folla, che si radunò per festeggiare insultandoli e insozzandoli. Fu una reazione scomposta ma probabilmente inevitabile, dopo tutti quegli anni di guerra e violenza. Del resto, quello fu solo l’inizio del regolamento di conti finale. In quei giorni si calcola infatti che circa 15.000 esponenti del regime siano stati arrestati e sommariamente giustiziati in tutta l’Italia del nord. Le vendette vennero portate a termine col tacito consenso degli Alleati, che decisero di lasciar sfogare la furia popolare a patto che non interferisse con le operazioni militari.

Due giorni dopo, il 30 aprile, quando i soldati dell’Armata Rossa erano ormai a soli due isolati dal suo bunker, Hitler si uccise sparandosi un colpo in testa, mentre sua moglie Eva Braun fece lo stesso con una pastiglia di cianuro. I loro corpi vennero trascinati fuori dal rifugio e bruciati all’interno del cratere di un colpo d’artiglieria, mentre il fuoco dei cannoni sovietici continuava incessante. Berlino capitolò infine il 2 maggio, lo stesso giorno in cui entrò in vigore il cessate il fuoco in Italia, mentre la resa incondizionata della Germania nazista venne accettata dagli Alleati l’8 maggio.

La guerra in Europa ed il sanguinario esperimento dei regimi nazifascisti erano finiti.

L’ultimo pezzo del mondo in cui era cresciuto mio nonno, la monarchia, se ne andò circa un anno dopo.

Il 9 maggio 1946, in un disperato tentativo di sopravvivere al referendum istituzionale fissato per il 2 giugno, re Vittorio Emanuele III abdicò definitivamente a favore di suo figlio Umberto II, già Luogotenente del regno dal giugno del ’44. La sera stessa si imbarcò e raggiunse Alessandria d’Egitto, dove si ritirò in esilio volontario.

Umberto II ne seguì l’esempio il 13 giugno, dopo che gli italiani scelsero la repubblica. Il Vaticano era rimasto stranamente silente durante la campagna referendaria e le malelingue sostennero subito che fosse per via della presunta bisessualità del nuovo Re. Ad ogni modo, incassata la sconfitta e compreso che gli Alleati non sarebbero intervenuti per difenderlo in caso di potenziali scontri, Umberto II prese un volo da Ciampino e si recò in Portogallo, dove risiedette prima a Colares e poi a Cascais, entrambi vicino a Lisbona.

Quando la Costituzione repubblicana entrò in vigore il primo gennaio 1948, il suo esilio acquisì forza di legge e divenne permanente. La sua amarezza trapelò in numerose interviste, in cui Umberto ribadì che la sua partenza “doveva essere una lontananza di qualche tempo in attesa che le passioni si placassero”, che pensava poi di tornare per dare il suo “apporto all’opera di pacificazione e di ricostruzione” e che “mai si parlò di esilio (…). Né mai, io almeno, ci avevo pensato”.

La storia d’Italia però non aveva più posto per lui. Dopo essersi separato dalla moglie, subito dopo l’arrivo in Portogallo, trascorse gli ultimi anni della sua vita tormentato dalla battaglia contro un tumore, che alla fine se lo portò via nel 1983. Morì solo in una clinica di Ginevra, stringendo la mano a un’infermiera.

Suo padre invece si era spento già poco dopo il Natale del 1947 a causa di una congestione polmonare. Pochi giorni prima, il 23 dicembre, aveva notato che nella corrispondenza giunta dall’Italia mancavano gli auguri natalizi di molte personalità da cui, evidentemente, si aspettava ancora di ricevere gli omaggi. Guardando il suo aiutante di campo aveva sibilato amaramente: “Viviamo proprio in un bel porco mondo”.

La campagna d’Italia

La guerra di liberazione durò 608 giorni ed inflisse circa 312.000 perdite agli Alleati, tra morti e feriti, e 500.000 ai tedeschi, anche se le stime divergono. Una media di circa 1.335 uomini colpiti ogni giorno, senza contare le vittime tra i civili. Nelle ultime settimane della campagna, il numero di soldati tedeschi di soli 17 o 18 anni caduti al fronte crebbe vertiginosamente. Il Reich era ormai in ginocchio e aveva iniziato a buttare nella fornace della guerra i suoi ragazzi più giovani.

Quella d’Italia fu una lunga guerra d’attrito, combattuta su un terreno impervio che impedì gli ampi e rapidi movimenti di carri armati che si erano visti in Russia, in Francia o in Africa. Le linee difensive tedesche furono spesso piegate solo dopo incessanti bombardamenti di artiglieria e furiosi attacchi all’arma bianca, con tecniche che sembravano appartenere più al primo conflitto mondiale che al secondo. In un contesto simile, la semplice movimentazione dei rifornimenti, molto spesso su strade di montagna colme di fango e battute dalle artiglierie, fu un enorme problema logistico, per risolvere il quale vennero impegnati migliaia di italiani inquadrati nel genio, nelle salmerie, nelle officine, nei trasporti e nei servizi di guardia. Il numero degli appartenenti a queste unità ausiliarie crebbe dai circa 60.000 uomini dell’ottobre 1943 fino agli oltre 196.000 dell’aprile del 1945. Un intero esercito che svolse un ruolo cruciale, ma che viene spesso dimenticato dai libri di storia.

Ernie Pyle

Il giornalista americano Ernie Pyle, vincitore del premio Pulitzer nel 1944 per i suoi reportage di guerra e ucciso l’anno successivo su una piccola isola a nord-ovest di Okinawa, definì chi aveva combattuto in Italia “gente dura, di fegato”. E lasciò questa impressione dei suoi mesi trascorsi sulla penisola: “Pochi di noi riescono a evocare qualche ricordo veramente bello della campagna italiana. Il nemico era duro e altrettanto lo erano gli elementi. Per chi aveva sofferto c’era poca consolazione – e nessuna per tutti quelli che erano morti – nel tentare di capire perché le cose fossero andate com’erano andate”.

Del resto, i molti morti accumulati da entrambe le parti continuarono ad ossessionare i superstiti per il resto dei loro giorni. Il generale von Senger und Etterlin, le cui truppe mio nonno aveva affrontato sia in Corsica che in Italia, confessò dopo la guerra che “non si riesce mai a dimenticare davvero”. E un reduce americano, riflettendo sulla sua incapacità di lasciare il passato nel passato, affidò queste parole a un suo diario: “Devo seguire le ombre fino alla terra di mezzo, perché sono stranamente legato a tutto ciò che è accaduto loro”. Credo che mio nonno si sia sentito come loro per tutta la vita.

Molto è stato detto e scritto sull’utilità e l’opportunità della campagna d’Italia. Per alcuni fu soltanto un enorme errore strategico, in cui migliaia di vite vennero gettate al vento per aprire una strada che non avrebbe mai consentito agli Alleati di spingersi più in là delle Alpi. Per gli anglo-americani la strada per Berlino era infatti una sola e passava forzatamente attraverso un’invasione della Francia.

C’è sicuramente del vero in questa analisi, ma è un giudizio parziale.

Senza l’esperienza degli sbarchi di Salerno ed Anzio, come riconobbe lo stesso Kesselring, la cruciale invasione della Normandia sarebbe forse risultata in un fiasco disastroso. L’Italia fu infatti un banco di prova essenziale per affinare le operazioni anfibie degli Alleati, che non potevano permettersi di essere ributtati in mare quando lanciarono il loro assalto al vallo atlantico. Senza contare che se i combattimenti in Italia non avessero sottratto ai tedeschi uomini, risorse ed energie, le avanzate alleate verso la Germania avrebbero incontrato una resistenza considerevolmente maggiore.

Inoltre, fu proprio grazie alla conquista dell’Italia che gli Alleati spazzarono via la marina tedesca dal Mediterraneo, aprirono una nuova rotta per rifornire Stalin ed ottennero gli aeroporti necessari per bombardare sempre più intensamente la Germania e le sue installazioni.

Infine, molto semplicemente non esisteva una flotta oceanica capace di trasportare l’immenso contingente Alleato dal Mediterraneo all’Inghilterra subito dopo la fine dei combattimenti in Africa. L’invasione dell’Italia fu quindi, prima ancora di un obiettivo strategico, un’incontrovertibile necessità operativa per gli Alleati, soprattutto considerando che Stalin non avrebbe tollerato che le armate anglo-americane restassero oziose per mesi senza ingaggiare i tedeschi mentre l’Unione Sovietica sosteneva uno scontro titanico ed all’ultimo sangue con la Wehrmacht. Fu insomma un’ondata di violenza necessaria e inevitabile, come scrisse alla moglie il capitano americano George Revelle Jr mentre si preparava a sbarcare in Sicilia: “Noi piccoli uomini dobbiamo risolvere queste catastrofi massacrandoci a vicenda, per riportare il mondo alla ragione”.

Pietro Calamandrei

Di tutti i protagonisti di quella guerra, Kesselring resta, per gli italiani, se non il più odiato certamente uno dei più odiosi. Dopo essersi opposto fino all’ultimo ad ogni ipotesi di resa, si consegnò agli americani vicino a Salisburgo il 6 maggio 1945. Processato nel 1947 a Mestre per crimini di guerra da un tribunale britannico, venne condannato a morte. Tuttavia, su pressione sia del generale Alexander che di Churchill, secondo i quali uccidere i leaders di un nemico vinto non fosse utile, la sua pena venne commutata prima in carcere a vita e poi a 21 anni di carcere. Nel 1952 venne definitivamente scarcerato a causa del presunto aggravarsi di un tumore, ma appena riacquistata la libertà rientrò in patria dove divenne sostenitore dei circoli neonazisti bavaresi nonché guida dell’organizzazione tedesca dei reduci “Verband deutscher Soldaten”. In quei giorni dichiarò di non avere nulla da rimproverarsi per la sua condotta in Italia ed aggiunse anzi che gli italiani avrebbero fatto bene a dedicargli un monumento per il suo ruolo nella salvaguardia di città d’arte come Roma e Firenze.

Pietro Calamandrei, ex partigiano e deputato socialdemocratico nonché membro della Costituente, rispose sul finire del 1952 a queste parole col componimento “Lapide ad ignominia”, che venne scolpito sul marmo e deposto prima presso il Palazzo Comunale di Cuneo e successivamente in molti altri comuni italiani:

“Lo avrai
camerata Kesselring
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi.

Non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti videro fuggire.

Ma soltanto col silenzio del torturati
più duro d’ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi
che volontari si adunarono
per dignità e non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo.

Su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
resistenza”

Kesselring morirà nel 1960 non di tumore ma d’infarto, senza mai rinnegare la sua fedeltà a Hitler.

Ritorno a casa

Mio nonno dev’essere riuscito a raggiungere Altopascio verso la fine di luglio del 1945, quasi tre anni dopo essersi separato da Ginetta per imbarcarsi per la Corsica. Ricordo che mi aveva raccontato più volte di come fosse difficile, in quei giorni, spostarsi attraverso l’Italia. La rete ferroviaria e viaria era stata in larga parte distrutta durante la guerra e non c’era alcun servizio di trasporto pubblico che fosse funzionante e capace di coprire tratte così lunghe. Senza contare poi che i mezzi di trasporto privati erano praticamente assenti.

L’unica alternativa era quindi quella di negoziare un passaggio sugli innumerevoli convogli militari che ancora attraversavano la penisola in lungo e in largo, rassegnandosi ad un viaggio scomodo e dalla durata impossibile da prevedere. Per raggiungere il paese di mia nonna furono quindi necessarie intere nottate trascorse nei cassoni polverosi di autocarri militari che avanzavano rombando e sobbalzando sulle strade semidistrutte dell’Italia centrale. A volte ebbe la fortuna di imbattersi in un convoglio che andava proprio nella direzione desiderata, riuscendo così a coprire una lunga tratta con un singolo viaggio. Altre volte fu costretto a cambiare numerosi mezzi per avanzare solo di una manciata di chilometri, o ad attendere un tempo incalcolabile prima di poter trovare qualcuno che gli consentisse di continuare il viaggio. Per fortuna la guerra l’aveva abituato a farsi bastare qualche pasto di fortuna e a dormire dove capitava, le gambe rannicchiate sul petto e la giacca dell’uniforme tirata sulle spalle a fargli da coperta.

Quando giunse finalmente in vista di Altopascio, in preda ad un’impazienza che iniziava a rendergli difficile stare fermo, si rese conto di essere sporco e si sentì improvvisamente in imbarazzo. Con la coda di un occhio vide la sua immagine riflessa sulla finestra rotta di una casa abbandonata durante la guerra e capì di avere bisogno almeno di una rinfrescata.

Si fermò a fumare una sigaretta e si costrinse a ricordare il periodo che aveva passato lì prima di partire per la Corsica. Seguendo le immagini della sua memoria, riuscì a ricostruire le strade del villaggio e a ritrovare uno dei laghetti che sorgevano poco lontano. Quando lo raggiunse in quella calda mattina d’estate, l’acqua cristallina che si ritrovò a guardare era increspata da piccole onde dalle creste bionde come il sole.

Decise in un attimo, incapace di resistere. Gettò a terra la sigaretta, lanciò lo zaino sull’erba, si sfilò gli stivali correndo e sentendosi sollevato da una libertà che non aveva provato da quando era adolescente si tuffò in acqua completamente vestito. La freschezza dell’acqua lo investì come uno schiaffo e per un attimo gli tolse il respiro. Sentì la polvere di quelle lunghe giornate sciogliersi sulla pelle e i muscoli della fronte distendersi dopo un tempo immemorabile.

Galleggiando immobile, rimase a guardare il cielo per qualche istante e gli parve di aver ricevuto il permesso di tornare alla vita. Uscito dall’acqua si tolse camicia e pantaloni e li appese ad asciugare al ramo di un albero, prima di sdraiarsi sull’erba e lasciarsi andare ad un sonno finalmente pacifico e senza sogni, cullato dal tepore del sole.

Quando si risvegliò era pomeriggio inoltrato e si sentì rinato, come se non avesse mai affrontato alcuna fatica. I vestiti erano forse ancora un po’ umidi ma sufficientemente asciutti da poterli rimettere, soprattutto in quel caldo estivo.

Si incamminò quindi verso casa di Ginetta, augurandosi di trovarla ancora in piedi, visto che circa un terzo del villaggio era stato distrutto durante la guerra. I ruderi che scorgeva e gli spazi vuoti che incontrava lungo le strade, là dove erano precedentemente sorte delle costruzioni, ne erano la testimonianza. Anche Altopascio, come gli altri luoghi che aveva attraversato in quei giorni, gli parve l’epicentro di una sorta di caos organizzato, dove la distruzione del conflitto era già cessata ma ciò che avrebbe dovuto sostituirla non era ancora arrivato.

Mentre metteva un passo in fila all’altro, la sua mente iniziò a riempirsi di dubbi. Forse non avrebbe riconosciuto Ginetta. Forse non avrebbe saputo cosa dirle o cosa sentire. O forse lei non l’avrebbe più voluto, dopo tutto quel tempo e quella violenza. Si accese nervosamente una sigaretta e quando si accorse che la mano che la reggeva quasi gli tremava gli venne da ridere: possibile che avesse più paura ora che prima di uno dei tanti scontri che aveva avuto durante la guerra? Ma il pensiero di Ginetta era stato uno delle poche cose a cui si era aggrappato nelle ore più buie e pregò che lei non avesse cambiato idea.

La vide finalmente da lontano, mentre si muoveva con sua sorella davanti alla loro casa, fortunatamente risparmiata dalla violenza della guerra. Prima ancora che da qualche particolare fisico la riconobbe da come si muoveva. Un colpo sordo gli rimbombò nel petto, come se il cuore avesse saltato un battito, e lui rimase pietrificato sulle gambe, certo di averla ritrovata.

Restò fermo a guardarla, attento quasi a non respirare. Ciò che aveva immaginato per tutti quegli anni era lì davanti a lui e osservare la sua fantasia sovrapporsi alla realtà gli diede le vertigini.

Finalmente Ginetta rallentò i suoi movimenti, intuendo di essere osservata. Mentre si sistemava distrattamente i capelli iniziò a guardarsi intorno girando su sé stessa, alla ricerca dello sguardo indagatore che si sentiva addosso, finché non scorse la sagoma di mio nonno piantata lungo il marciapiede. Interruppe i suoi movimenti improvvisamente, bloccando curiosamente le braccia a mezz’aria. Quando finalmente riuscì a metterlo a fuoco, una mano scattò a coprirle la bocca.

A chi fosse capitato di guardarli in quel momento sarebbero apparsi come sospesi sul mondo, i loro corpi immobili circondati solo dal frinire delle cicale d’estate. Alla fine, mentre mio nonno sentiva che le spalle iniziavano a tremargli per il desiderio di piangere, fu Ginetta che trovò la forza di andargli incontro. Mosse prima qualche passo incerto e poi riuscì a iniziare a correre, finché il suo slancio non si esaurì tra le braccia di lui.

Si abbracciarono con la forza di uno schianto, sprofondando i visi uno dentro le spalle dell’altra. Mentre si affondavano le dita nella schiena come se ne andasse della loro vita iniziarono a ondeggiare lentamente avanti e indietro, capaci solo di mormorare il nome l’uno dell’altra.

Dopo un tempo per entrambi impossibile da ricordare fu mio nonno il primo a scostare il viso per parlare. Si guardarono negli occhi mentre lui le carezzava i capelli: “Sono tornato”, le disse con un sorriso.

“Ho pregato per te tutti i giorni come ti avevo promesso, ricordi?”, gli chiese lei mentre una lacrima le scendeva lungo una guancia.

“Sì, me lo ricordo”, le rispose annuendo. Fece passare qualche istante e poi, sforzandosi di non far tremare la voce, le chiese “Mi riconoscerai dopo tutto questo? Pensi sia possibile?”. Aveva bisogno di saperlo.

“Ma io ti conosco già Adolfo. So chi sei”, gli rispose mentre gli afferrava il volto con le mani.

Udendo quelle parole mio nonno cercò nei suoi occhi qualche segno di incertezza, mentre la sua mente precipitava in una palude di dubbi. Forse stava dicendo la prima cosa che gli era passata per la testa. Forse stava prendendo tempo. Forse voleva solo vedere come avrebbe reagito lui. Ma più spostava il suo sguardo da un occhio all’altro di lei più si scopriva incapace di scorgere anche solo l’ombra di un calcolo.

La guardò mentre lei aspettava una sua reazione, le labbra socchiuse nell’attesa. Chiuse gli occhi e decise di insistere: “Ma è passato così tanto tempo Ginetta. Come ci ritroveremo?”

“Per quello abbiamo tutta la vita”, gli disse accarezzandolo e tirandolo di nuovo a sé.

Questa volta mio nonno si arrese ed annuì in silenzio, mentre sentiva il corpo di lei sparire tra le sue braccia. Un gemito gli sfuggì dalla bocca: “Non credo che ce l’avrei fatta senza di te”, le disse. Ed era vero, come lo sarebbe stato in seguito.

I miei nonni nel luglio del 1945 ad Altopascio, poco dopo essersi ritrovati

La relazione che li tenne uniti per i 63 anni successivi, fino alla morte di mio nonno nel 2008, fu colma di un sentimento viscerale e del coraggio della devozione, ma non fu priva di cicatrici. Mio nonno, come molti in quel periodo, sopravvisse alla guerra nel corpo ma ne emerse con lo spirito irrimediabilmente violato. E per il resto dei suoi giorni costrinse mia nonna alle continue difficoltà ed acrobazie di un amore schizofrenico, sollevandola fino alle vette di una generosità più forte della morte per poi sprofondarla in un pantano di incubi notturni, orrore della vita e collera repressa, in un ciclo senza fine e senza spiegazione.

Ma di ciò che sarebbe stato e che avrebbero vissuto, in quel momento non potevano curarsi.

Mio nonno si fermò ad Altopascio per il resto dell’estate, incurante del trascorrere del tempo e della vita che si srotolava intorno a lui. Tutto ciò che contava era restare lì con Ginetta, godendo del miracolo di poterla finalmente vedere ogni giorno. L’arrivo dell’autunno ed i primi venti freddi lo strapparono dal quel bozzolo di felicità estraneo al mondo in cui avevano trovato rifugio. Attraversare gli Appennini durante l’inverno sarebbe stato proibitivo e per lui il tempo di ripartire per tornare a casa era quindi finalmente arrivato.

Quando varcò la soglia di casa ad Ariano nel Polesine venne sommerso dall’amore della famiglia e dalle lacrime a lungo trattenute dei genitori, ma anche dal dolore di scoprire che sua sorella Raffaella era morta di polmonite durante la sua assenza e che suo fratello Enzo non sarebbe rientrato prima dell’anno successivo, ancora trattenuto dagli inglesi come prigioniero di guerra. Riconciliare quegli opposti sentimenti gli parve una contraddizione insanabile. Per tentare di non lasciarsene travolgere iniziò a pianificare il suo futuro con Ginetta, a partire dal suo prossimo viaggio ad Altopascio in primavera, e si rifugiò nella compagnia del suo cane Argo.

Raffaella, la sorella di mio nonno, col cane Argo

Ricordo che mio nonno mi raccontò più volte di come Argo l’avesse accolto al suo rientro dopo una separazione di oltre tre anni. Quando l’aveva visto avvicinarsi a casa aveva iniziato ad abbaiare come se si trattasse di uno sconosciuto, ma si era ammutolito di colpo quando si era sentito chiamare per nome. Si era immobilizzato con una zampa ancora sollevata, tendendo le orecchie e corrugando la fronte, la testa inclinata in un’espressione confusa. “Argo, sono io!”, aveva detto ancora una volta mio nonno. Il cane gli si era timidamente avvicinato annusandogli prima una gamba e poi una mano, incapace di credere a quello che stava succedendo. Quando finalmente aveva realizzato che si trattava proprio di mio nonno, aveva prima iniziato a correre e a saltare avanti e indietro, senza sapere come meglio festeggiarlo, e si era poi sciolto in un pianto inconsolabile. Mio nonno l’aveva sollevato in braccio e portato in casa, dove si era dedicato quasi più a lui che ai suoi genitori, travolto dalla sua felicità incontrollabile. Da quel giorno, Argo l’avrebbe seguito in modo quasi ossessivo, terrorizzato dalla possibilità di perderlo di nuovo e dormendo ai piedi del suo letto per vegliare su di lui tutti le notti che si fosse trovato a casa. Anzi, dormendo spesso per terra con lui, visto che nei primi mesi mio nonno aveva dovuto riabituarsi a dormire su un materasso, per lui divenuto troppo morbido dopo tante notti di guerra trascorse rannicchiato in qualche buca. 

La Croce al Merito di Guerra insignita a mio nonno

Ci volle tempo, nell’Italia semidistrutta di quegli anni, per riuscire ad organizzare un futuro con Ginetta. Dopo vari viaggi di fortuna attraverso gli Appennini, mio nonno, in una calda sera d’estate, si decise finalmente a chiederle la mano e lei accettò chiudendo gli occhi e gettandogli le braccia al collo. Poche settimane dopo, nell’agosto del 1949, mio nonno ebbe anche la soddisfazione di vedersi consegnare la Croce al Merito di Guerra, insignita a tutti i soldati italiani che avevano preso parte alla guerra di liberazione. Erano giorni felici, carichi della promessa del futuro.

Il matrimonio venne finalmente celebrato il 10 aprile del 1950, cui seguì un viaggio di nozze a Napoli e dintorni, alla ricerca dei primi bagni della stagione. Quando rientrarono per iniziare la loro vita da coppia sposata, mia nonna radunò le sue cose, salutò la sua famiglia di Altopascio e raggiunse mio nonno ad Ariano nel Polesine, sistemandosi inizialmente presso i genitori di lui.

Negli anni trovarono poi le loro strade. Mio nonno non tornò più all’università e non cercò di rimanere nell’esercito. Credo ne avesse avuto abbastanza, anche se continuò a considerarsi un bersagliere per il resto dei suoi giorni e non dimenticò mai di versare la sua quota annuale all’UNUCI, l’Unione Nazionale Ufficiali in Congedo d’Italia. Alla fine, rimediò un modesto impiego in banca e se lo tenne stretto fino alla pensione. Mia nonna invece trovò lavoro come maestra elementare e spese buona parte degli anni ’50 a insegnare ai bambini a parlare l’italiano, in un’epoca in cui ancora molti conoscevano solo il dialetto.

Mio nonno mentre riceve un premio negli anni ’50. Probabilmente ad un evento di lavoro. E’ quello al centro con la sigaretta in mano

Quando riuscirono a trasferirsi in una casa tutta per loro non passarono molto tempo da soli: la famiglia arrivò presto. La prima delle loro due figlie nacque già nel 1951 e venne chiamata Raffaella, come la sorella perduta di mio nonno. Mia mamma Silva invece vide la luce poco dopo, nel 1952.

Per le vacanze familiari, sempre le stesse attraverso gli anni, mio nonno decise di comprare un piccolo appartamento a Porto Recanati, nelle Marche, dove anche io ho speso più di qualche estate in sua compagnia tuffandomi in mare, calciando il pallone nel cortile del condominio e sparpagliando i miei giochi in ogni angolo del soggiorno. Allora non lo potevo sapere, ma la scelta di quel luogo non fu casuale. Il fiume Musone, sul quale mio nonno aveva combattuto una delle sue battaglie più efferate, si getta nell’Adriatico solo cinque chilometri più a nord ed é raggiungibile con una semplice passeggiata sulla spiaggia. Filottrano e Santa Maria Nuova, dove aveva visto tanti suoi compagni cadere, sono appena più distanti, a circa mezz’ora di macchina nell’entroterra. E il cimitero militare polacco che raccoglie i caduti della battaglia di Ancona, uno dei più importanti in Italia, sorge proprio a ridosso di Porto Recanati, nel vicino paese di Loreto.

In tutti quegli anni mio nonno non lo disse mai a nessuno, né forse sarebbe stato in grado di spiegarlo. Ma si ritrovò ad attraversare una vita intera senza riuscire ad abbandonare i suoi campi di battaglia, costretto in un equilibrio estenuante tra le giornate che gli si paravano davanti ed il baratro del suo passato.

Quel che rimane

Mio nonno durante una delle sue permanenze ad Altopascio

Dopo aver ripercorso la vita di mio nonno al meglio delle mie possibilità e aver speso i mesi passati tentando di comprenderla il più possibile, mi ritrovo ora a scrivere queste ultime righe col cuore pesante, perché mi sembra di essere sul punto di salutarlo di nuovo. Nel corso degli anni il vuoto che ha lasciato dentro di me ha smesso di essere un bagliore bruciante, ma si è trasformato in un pozzo profondo nascosto da qualche parte come una trappola, che devo sempre stare attendo ad evitare per evitare di caderci dentro. Un luogo intorno al quale sono costretto a camminare in punta di piedi. Mentre scrivo, mi rigiro tra le mani il suo cappello da bersagliere, ricevuto dopo la sua morte e da allora gelosamente custodito, e mi chiedo cosa mi sia rimasto di lui alla fine di questo viaggio.

Sicuramente mio nonno è stato un uomo molto diverso da quello che sono diventato io. Per tutta la vita è stato un concentrato inscindibile di amore capace di tutto e rabbia timorosa di niente, senza nulla in mezzo. Nelle sue azioni come nei suoi sentimenti non ha mai conosciuto la mezza misura e forse non l’ha nemmeno mai cercata. Ricordo di averlo deluso un giorno per essermi rifiutato di uscire con lui per la nostra solita passeggiata, impegnato com’ero in qualche gioco che mi ero inventato con altri bambini nel cortile del nostro palazzo. “Oh andate al diavolo!”, aveva sibilato un attimo prima di girarsi e sparire lungo la strada, lasciandoci interdetti e in un silenzio imbarazzato. Eppure, nonostante qualche episodio simile, la luce che vedevo nei suoi occhi quando mi incontrava, le lunghe ore che spendeva con me senza esitazione e l’assoluta generosità dell’amore che sentivo nei suoi abbracci lo salvavano sempre.

Rispetto a lui, io sento di essere diventato più malleabile e più capace di accettare i compromessi della vita, anche se talvolta percepisco dentro di me un bagliore di quella fiamma vivida e a volte imprevedibile che l’aveva animato. Nonostante queste differenze apparentemente inconciliabili però, ci sono alcuni suoi tratti che nel tempo sono germogliati dentro di me, contribuendo a fare di me la persona che sono oggi.

In primo luogo, mio nonno mi ha dimostrato quanto sia importante non avere paura della paura. La vita ci mette continuamente di fronte a circostanze sulle quali non abbiamo controllo, ma non ci toglie mai la possibilità di decidere come affrontarle, per quanto possa essere difficile.

Quando mi sono trasferito a Bruxelles ho attraversato un periodo piuttosto buio, durante il quale mi sono sentito spaesato, senza un posto chiaro nel mondo, lontano dagli affetti più cari e improvvisamente solo dopo la fine della relazione che mi aveva condotto fino a quella città, col suo carico di speranze e di ingenuità. Ricordo che mi ero sentito improvvisamente schiacciato dagli eventi e, con mia grande sorpresa, avevo cominciato a sperimentare un terrore soffocante, che mi avvinghiava petto e gola, gettandomi in una dimensione in cui gesti semplici e quotidiani come muovermi e parlare alle persone erano diventati progressivamente più difficili. Dopo aver cercato di decifrare quel fenomeno per qualche tempo, avevo capito, con un certo disappunto, di soffrire di attacchi di panico. Mi ero sempre considerato una persona ottimista e solare e non riuscivo a capacitarmi che un’esperienza del genere dovesse toccare proprio a me.

La scoperta della mia fragilità aveva rapidamente spazzato via la fiducia che avevo in me stesso e mi aveva precipitato in un pozzo da cui era difficile scorgere la luce. Nel volgere di poche settimane, la parte peggiore della giornata era diventata la mattina, quando dovevo costringermi a uscire di casa, andare al lavoro e comportarmi in modo sufficientemente professionale per le ore successive, quando l’unica cosa che avrei voluto fare sarebbe stata di rimanere a letto a dormire. O a piangere la mia solitudine.

Col passare dei mesi mi ero reso conto che non avrei potuto continuare ad andare avanti così a lungo. Ma non sapevo quale strada prendere e temevo non sarei riuscito a salvarmi. Un giorno, senza preavviso, mio nonno mi aveva telefonato. Non avevo avuto il coraggio di confessargli nessuna delle mie difficoltà durante quella chiamata, ma sentire la sua voce mi aveva rinfrancato. Mi ero fermato a pensare alle prove che aveva affrontato nella sua vita ed avevo quindi compreso che se lui aveva avuto il coraggio di affrontare il suo nemico a viso aperto avrei potuto farlo anche io. Con timore certo, ma anche con la dignità di chi sta facendo del proprio meglio, qualunque sia il risultato finale. Avevo capito per la prima volta che non c’era nessuna vergogna nel provare paura, ma che attraversare la vita con l’unica preoccupazione di schivarla sarebbe stata un’occasione persa ed un peccato irrimediabile. Da quel giorno, per me, le cose erano iniziate a migliorare.

L’esperienza traumatica di mio nonno mi ha anche insegnato a non fidarmi troppo della forza e dei suoi miti, così spesso sbandierati in certi stereotipi di virilità e nella propaganda di chi ha avuto la fortuna di non misurarsi mai con la violenza vera ed il terrore che la accompagna. Ascoltando le sue memorie di soldato e intuendo gli anni di sofferenza che nascondevano, mi sono progressivamente reso conto che la guerra non indurisce gli uomini, ma li disintegra un pezzo alla volta, anche se il loro corpo alla fine sopravvive. E che nulla può preparare l’animo umano per un’esperienza simile. L’addestramento, che pure mio nonno impartì alle nuove reclute alla fine della sua esperienza militare, può affinare i riflessi e programmare i movimenti del corpo, ma non può proteggere l’anima dalle lacerazioni cui andrà incontro. Qualsiasi considerazione ulteriore è una falsa illusione di controllo, costruita e venduta per rendere appetibile e digeribile ciò che non lo è.

Ricordo che più volte mi aveva raccontato di aver lanciato la macchina alla massima velocità lungo qualche strada di campagna prima di tornare a casa dal lavoro, dopo giornate più nere di altre in cui non era riuscito a controllare i suoi incubi. Lo aveva fatto per cercare di seminarli una volta per tutte, guidando con le dita che artigliavano il volante e urlando, nella solitudine del suo abitacolo, tutta la sua amarezza e la sua frustrazione. Ma era un tentativo destinato ogni volata a fallire e a lasciarlo più vuoto di prima. Come tanti dopo la guerra, sono convinto che anche mio nonno abbia vissuto tutta la vita confrontandosi con un disturbo da stress post-traumatico mai diagnosticato e mai affrontato

I miei nonni in gita a Metello, in provincia di Lucca, nel 1949

Ciò che però anelo con più forza quando penso a mio nonno, probabilmente perché è una dimensione che ancora mi sfugge nel mondo affannato e senza pause in cui vivo, è la semplicità con cui ha attraversato le sue giornate. La sua esistenza è stata un paradigma di rituali sempre uguali a sé stessi, che lui ha vissuto senza gioia né dolore, ma con un’accettazione che pareva il distillato di una più alta comprensione dell’esistenza, dov’era evidente sia l’importanza che la transitorietà della vita umana. 

A volte mi capita di incrociare, per strada o nei corridoi degli uffici, uomini ben vestiti e perfettamente curati, che col loro passo deciso e le loro cravatte ben annodate sembrano fare di tutto per sprigionare sicurezza e impressionare il mondo. Ma mi basta osservarli un attimo di più per sentire tutta la loro fragilità ed il loro terrore di non piacere. Mio nonno era il contrario di tutto questo: un monolite solido e spigoloso, incapace di fingere, contro cui la vita poteva solo schiantarsi. Una di quelle persone col raro dono di farti capire, con un semplice sguardo o il tocco di una mano, che non ha senso preoccuparsi, perché alla fine andrà tutto bene.

Mia nonna, che tanto ha dovuto sopportare a causa sua, deve averlo amato molto per questo. Perché le è stato leale fino all’ostinazione, mentre le relazioni che ho vissuto io, afferrate e consumate tra una città e l’altra, assomigliano a una collezione sempre più lunga di promesse non mantenute. E perché incontrandolo si aveva sempre l’impressione che, nonostante tutto, l’amore lo abitasse ancora nella sua forma più pura, perfettamente permeata di fiducia.

La stessa fiducia che ricordo nei suoi occhi quando, una mattina d’estate, mi aveva chiesto se volevo andare a far volare sull’argine del Po l’aquilone che aveva appena comprato. Era rosso e faceva capolino dal baule della macchina, che mio nonno aveva aperto quando l’avevo raggiunto. Dall’alto dei miei quattordici anni, non mi era sembrata una buona idea. Con un sorriso imbarazzato gli avevo quindi riposto che non ne avevo voglia in quel momento. O che non avevo tempo. “Forse un’altra volta, nonno”, avevo aggiunto un attimo dopo, per rincuorarlo. Ma mentre lo dicevo mi aveva guardato con un sorriso triste, come se avesse già capito che non sarebbe mai successo.

Vorrei poter tornare indietro, abbracciarlo e dirgli di sì.

I miei nonni sorridenti alla fine della guerra
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