4. L’occupazione della Corsica21 min read

Immagino mio nonno seduto sulla nave che lo sta portando in Corsica. È una fredda mattina di novembre, le nuvole oscurano il sole ed il mare è un deserto grigio e increspato. Intorno a lui si muovono diversi soldati. Ognuno combatte il nervosismo come meglio può: alcuni puliscono le armi, altri fumano guardando l’orizzonte, i capelli frustati dal vento. C’è chi gioca a carte, chi prega e chi scrive a casa. Nessuno sa cosa aspettarsi dall’imminente sbarco. Saranno costretti a combattere o potranno raggiungere le loro posizioni senza sparare?

Mio nonno dovrebbe essere nervoso come gli altri. È un ufficiale e sente lo sguardo dei suoi uomini su di lui, ma la sua mente è altrove. L’addestramento a Pola, la promessa di servire l’Italia, la sensazione di essere in procinto di qualcosa di grande: tutto gli appare distante, come se fosse accaduto a qualcun altro. Da alcuni giorni è intrappolato in una stanza buia che si sta richiudendo su di lui, il rombo cupo delle pareti in movimento che suona come un freddo presentimento.

Mio nonno sorridente in divisa: é il secondo da sinistra. Presumibilmente prima della sua partenza per la Corsica.

Dopo aver completato la scuola ufficiali si era messo in viaggio per tornare a casa in licenza. Lungo la strada era passato per Trieste. In quei giorni, il futuro sembrava una sfida da accettare. La divisa gli dava sicurezza e lo faceva sentire più grande dei suoi 20 anni. Muovendosi con una determinazione nuova per lui, e di cui lui stesso si stupiva, non aveva faticato a conoscere Giulietta, una giovane ragazza triestina di buona famiglia, che gli aveva lasciato il suo profumo addosso e il ricordo di chi ti guarda come se fossi l’unica cosa al mondo.

Un’esperienza nuova per lui. Aveva attraversato i lunghi anni ad Ariano nel Polesine sentendosi quasi invisibile e prigioniero di un’esistenza sempre uguale a sé stessa. Ma ora che era diventato bersagliere e stava per lasciare l’Italia aveva negli occhi un’invincibilità sfrontata. E così non gli era stato difficile salutare Giulietta in fretta e ricominciare a inseguire il suo destino, sorridendo forse dei sentimenti di lei. Il rumore dei suoi passi rapidi e secchi sul selciato, mentre lei lo guardava allontanarsi nella sera, lo aveva fatto sentire un eroe romantico. L’idea di non aver compreso le regole del gioco non gli aveva minimamente sfiorato la mente.

Era stato assegnato al XXXIII battaglione bersaglieri ciclisti, di stanza in Toscana. Aveva quindi seguito la sua unità fino al punto di raccolta e lì aveva iniziato a prepararsi all’impegno operativo. Erano giorni di attesa febbrile e di esercitazioni inframmezzate ad esibizioni per il pubblico, che assisteva curioso alle acrobazie itineranti dei bersaglieri motociclisti, organizzate con la consueta pomposità fascista.

Fu in quei giorni sospesi della tarda estate del 1942 che ad Altopascio, in provincia di Lucca, conobbe quella che sarebbe divenuta mia nonna. Si chiamava Gina, anche se preferiva farsi chiamare Ginetta, ed era una ragazza sorridente e dai capelli lunghi, che già fumava pur essendo una donna. Un’abitudine che avrebbe conservato: ogni giorno, dopo pranzo, apriva la finestra della cucina e fumava una sigaretta in silenzio, guardando i suoi gerani muoversi colorati sul balcone.

La sua energia l’aveva conquistato e lui si era ritrovato a scriverle canzoni e a suonarle serenate sotto le finestre di casa, accompagnato da un’armonica che aveva imparato a suonare in tutta fretta. Ricordo quando me ne parlava da bambino, sul tragitto verso la scuola o durante una passeggiata pomeridiana: i suoi occhi si alzavano verso il cielo e fissavano un mondo che non esiste più.

Mia nonna Ginetta

Cosa fosse successo alla sua determinazione e al suo destino da conquistare, non sarebbe stato in grado di spiegarlo. Improvvisamente erano divenuti un pensiero passeggero ed inutile. Ciò che sapeva per certo era che si era sentito riconosciuto per la prima volta nella vita. E che l’intero rotolo della sua esistenza iniziava e finiva tra le giovani e delicate mani di lei.

Il mese di novembre era quindi arrivato come in un sogno e la realtà si era infranta su di loro con la forza di uno schianto. Gli Alleati stavano cacciando le forze dell’Asse dal nord Africa e Hitler aveva deciso di occupare l’intero territorio francese, temendo ulteriori sbarchi anglo-americani sul suo fianco meridionale. Gli italiani avrebbero dovuto occupare rapidamente Corsica e Francia sud-orientale.

Nel giro di qualche giorno, il ritmo degli avvenimenti era quindi accelerato bruscamente. Il XXXIII battaglione bersaglieri era stato assegnato alla Corsica e lo sbarco sarebbe dovuto avvenire al più presto. Mussolini aveva fretta di completare la missione e di compiacere Hitler.

L’ordine di partire era quindi arrivato prima che lui potesse trovare le parole per dire addio. Qualcosa aveva confusamente cercato di farsi strada nella sua gola, ma poi era rimasto incastrato lì e l’unico pensiero che era riuscito a formulare era che tutto cambiava sempre troppo in fretta. Non era giusto. Ci affanniamo ad afferrare la felicità e poi questa ci scivola tra le dita come la sabbia.

“Pregherò per te tutti i giorni”, gli disse Ginetta. “Tu torna indietro vivo”. Lui annuì in silenzio e la abbracciò prima di seguire la propria unità, sentendosi incapace di respirare dentro l’uniforme rigida, le gambe che si trascinavano pesanti come cemento. Si sarebbero rivisti solo due anni dopo. Due anni feroci, lunghi una vita.

Giunto al punto d’imbarco a Livorno, nel trambusto dei preparativi, mio nonno aveva cominciato a scrivere le sue prime lettere, alla famiglia e a Ginetta, cercando di trovare parole d’affetto e incoraggiamento per tutti. Ma il suo sforzo era stato spezzato da una visita inaspettata.

Chissà come Giulietta era riuscita a rintracciarlo. Sfidando qualsiasi convenzione sociale era sgusciata fuori casa per attraversare mezza Italia e parlargli di persona prima che partisse. Doveva aver viaggiato costantemente aggrappata ad un esile filo di speranza, immaginando il loro incontro infinite volte.

L’aveva trovato appena in tempo, poche ore prima che si imbarcasse. Ma vedendola mio nonno era apparso solo sorpreso. Era bastato quello sguardo per farle capire che era stato tutto inutile.

“Ci tenevo così tanto”, gli aveva detto gettandogli le braccia al collo, gli occhi ridotti ad un taglio scheggiato sul viso. Mio nonno l’aveva abbracciata a lungo, respirando in silenzio tra i suoi singhiozzi. Poi si era seduto sul ciglio della strada e l’aveva guardata allontanarsi, una figura incerta all’orizzonte che si portava dietro tutte le gioie e i dolori di un amore rifiutato, che non sarebbe mai stato vissuto. La decisione baldanzosa di qualche mese prima si era improvvisamente trasfigurata, lasciandolo con una vita in meno cucita addosso e la condanna a costruire la propria felicità su una piramide di dolore. A Trieste aveva gettato la sua innocenza al vento e non si era nemmeno reso conto di farlo.

Avrebbe dovuto seguirla, riaccompagnarla a casa e consolarla. O restare lì con Ginetta ed aiutarla ad attraversare quegli anni di guerra. O tornare a casa dalla sua famiglia, dopo che anche suo fratello Enzo era partito per il fronte (in realtà era già stato fatto prigioniero degli inglesi, ma mio nonno l’avrebbe saputo solo a guerra finita). Invece guardava il mare infrangersi su un molo mentre radunava il suo equipaggiamento, pronto a salpare verso un futuro che somigliava sempre più ad un errore. Si sentiva stanco, logorato. Invecchiare non è il passaggio del tempo, ma il peso degli addii.

Una foto di Enzo, il fratello di mio nonno, spedita alla famiglia da un campo di prigionia in India. Su di questa, prima della firma, aveva scritto: “A voi tutti il mio costante ricordo”.

Ormai però era troppo tardi e non c’era nulla che potesse fare. Raccolse quindi lo zaino e spinse le sue membra a bordo della nave, trascinandosi dietro l’inutilità di un corpo che non poteva più abbracciare nessuno. Quando finalmente presero il largo, girò gli occhi sugli altri soldati che, come lui, guardavano in silenzio la terra che si allontanava. Per un attimo, l’intera nave gli parve una bottiglia di nostalgia scagliata da qualcuno tra le onde.

Gli italiani sbarcarono in Corsica l’11 Novembre a Bastia ed il 12 ad Ajaccio e Bonifacio. L’operazione venne portata a termine dal VII Corpo d’Armata, guidato dal Generale Mondino. Circa 150 navi, sia militari che civili, furono impiegate per il trasporto delle truppe: lo sbarco avvenne in forze per far fronte a qualsiasi eventualità e coinvolse quasi 70.000 uomini.

I piani per l’occupazione della Corsica erano stati stesi in realtà molto prima dello sbarco. Già nel novembre del 1940 era stata sviluppata una strategia per la sua progressiva italianizzazione a partire da un’amministrazione congiunta corso-italiana. Le mire fasciste sull’isola divennero infatti chiare sin dal momento della sconfitta francese nel giugno 1940: la CIAF (Commissione Italiana d’Armistizio con la Francia) aveva apertamente indicato la Corsica come aspirazione territoriale italiana irrevocabile. E Hitler stesso, durante un colloquio avvenuto a Monaco il 18 giugno con Mussolini, aveva riconosciuto all’Italia il diritto a occupare l’isola.

Quando gli italiani mossero verso la Corsica, i francesi, sottoposti alle direttive del regime di Vichy, ricevettero l’ordine di non opporsi. Del resto non ne avrebbero avuto i mezzi: la disparità numerica col contingente italiano era soverchiante. Lo sbarco, che era stato preceduto da un incontro preparativo tra l’Ammiraglio Tur e le autorità francesi, avvenne quindi pacificamente. I pochi soldati francesi di stanza in Corsica vi restarono meno di un mese: l’8 dicembre, dopo aver distrutto armi e carte segrete, si imbarcarono e lasciarono l’isola cantando la Marsigliese.

Corte e la sua cittadella

Il posto di comando italiano venne stabilito dal Generale Mondino presso l’Hotel de la Paix a Corte, un paese con una cittadella fortificata incastonato tra le montagne centro-settentrionali dell’isola. Nello stesso paese venne organizzato il 10° Raggruppamento Celere, composto di Alpini e Bersaglieri. Una sorta di forza di pronto intervento, da utilizzare per qualsiasi evenienza. Il XXXIII battaglione bersaglieri ciclisti, di cui mio nonno faceva parte, venne inquadrato proprio nel Raggruppamento Celere e stanziato poco distante, a Vizzavona, un minuscolo paese a circa 40 chilometri a sud di Corte e a 900 metri d’altezza.

La stazione del villaggio di Vizzavona

Le giornate erano particolarmente fredde tra quelle montagne, durante l’inverno del ’42 – ’43. La temperatura piombava a volte di vari gradi sotto lo zero e gli spostamenti in bicicletta potevano trasformarsi in una lotta contro il congelamento. Ricordo mio nonno che mi raccontava come lui e i suoi soldati dovessero talvolta aiutarsi l’un l’altro per staccare le dita dal manubrio alla fine di una pattuglia. Il freddo le faceva aderire al metallo ghiacciato e per poterle liberare dovevano essere lentamente scaldate ed allungate una per una, facendo attenzione a non romperle.

Dopo il Generale Mondino, il comando italiano passò al Generale Carboni e infine al Generale Magli. Tutti dovettero gestire un sentimento di crescente ostilità tra italiani e francesi. Il contingente italiano era infatti particolarmente visibile sull’isola, con circa un soldato ogni tre abitanti, e rappresentava una provocazione continua. Nonostante il tentativo delle autorità italiane di dare all’operazione un carattere puramente difensivo nei confronti di possibili attacchi Alleati, i corsi non potevano che percepire gli invasori come truppe d’occupazione.

Per controllare la popolazione vennero progressivamente imposte misure restrittive alla circolazione di automobili e navi. Successivamente venne introdotto il coprifuoco. I corsi, insofferenti, reagirono indossando, soprattutto a Bastia, coccarde tricolori francesi. O rifiutandosi di scaricare navi italiane.

Nel tentativo di evitare possibili incidenti, Mussolini intervenne personalmente, inviando precise consegne all’esercito italiano: “limitazione dei contatti alle sole necessità di servizio, attitudine cordiale ma riservata nei confronti della popolazione, tenuta delle truppe e disciplina irreprensibile”. Ordini questi ripetuti dall’Ammiraglio Tur, che ribadì come ogni soldato dovesse “essere un esempio di disciplina, di correttezza, di generosità verso coloro che soffrono moralmente e fisicamente”.

All’inizio del 1943 però la situazione iniziò a sfuggire di mano.

Il 23 gennaio i britannici erano entrati a Tripoli, completando la conquista della Libia dopo solo tre mesi dalla battaglia di El Alamein. Il 24 gennaio si era chiusa la conferenza di Casablanca, durante la quale gli Alleati avevano stabilito che le forze dell’Asse si sarebbero dovute arrendere senza condizioni. E il 2 febbraio l’Unione Sovietica aveva finalmente vinto la battaglia di Stalingrado, in cui tedeschi, italiani, rumeni e ungheresi avevano perso quasi un milione di uomini. L’ondata nazista si era infine arenata e da quel momento in poi la Wehrmacht non avrebbe più recuperato la sua originaria capacità offensiva.

Il vento era cambiato e quelle notizie di continue disfatte fecero piombare il morale dei soldati italiani in Corsica sempre più in basso. Gli uomini iniziarono a sentirsi sconfitti, abbandonati dal loro Paese in una regione che andava lentamente risvegliandosi e che stava diventando sempre più ostile. Molti iniziarono apertamente ad augurarsi una rapida fine della guerra. E i registri del tribunale militare di Bastia cominciarono a registrare un aumento degli episodi di insubordinazione, minacce a superiori, disfattismo e perfino ferite volontarie, autoinflittesi dai soldati per ottenere il congedo.

Ciononostante, i soldati italiani trovarono un modo per annegare i loro dispiaceri. Rassegnatisi ad una lunga permanenza sull’isola, iniziarono ad avere sempre più contatti con le ragazze locali. Il fenomeno, iniziato in sordina, assunse ad un certo punto proporzioni considerevoli. Al punto che le autorità francesi cominciarono a lamentarsi apertamente suggerendo che le donne venissero “spaventate” per non fomentare più quella “ondata di immoralità”.

In fatto di punizione delle donne, il Front National, e cioè il movimento di resistenza creato nel 1941 dal partito comunista francese (e non il partito di estrema destra dei Le Pen fondato nel 1972), si trovò per una volta d’accordo con le autorità di Vichy. Volantini minacciosi iniziarono quindi a comparire nelle città e nei villaggi. Uno di questi recitava: “Queste giovani donne hanno una condotta ignobile. Dove sono la fierezza, la dignità leggendaria della donna corsa? Consumate dal fuoco del vizio che le spinge tra le braccia del nostro nemico”. Un altro invece dichiarava: “Le cagne che disonorano il nostro villaggio dovranno presto renderne conto”.

Una donna francese mentre viene rasata a zero

Alle minacce seguirono poi i fatti. Le donne che si erano fatte corteggiare dagli italiani vennero schedate e alla fine dell’occupazione ebbero i capelli rasati pubblicamente come punizione. I primi episodi di questo tipo di ritorsione, che si diffuse poi al resto della Francia, avvennero proprio in Corsica. Una vendetta umiliante imbevuta in generose dosi di gelosia e misoginia.

Non so se mio nonno, in quei lunghi mesi, si fece consolare da qualche ragazza corsa. Quel ch’è certo è che rimase in continuo contatto con mia nonna, lottando per evitare che il tempo trasformasse il ricordo di quella ragazza sorridente in un’idea pura, senza corpo. Le lettere certo servivano, ma ancora di più le telefonate, per poter sentire la sua voce e ridare forma alle sue memorie. L’intero paese di Altopascio aveva un solo telefono all’epoca e ad ogni chiamata Ginetta doveva essere fisicamente rintracciata dai vicini per poter raggiungere l’apparecchio e rispondere.

Tra la fine di aprile ed il maggio del 1943 la situazione si aggravò ulteriormente.

La campagna d’Africa era finita e la presenza sempre più massiccia della marina alleata nel Tirreno aveva iniziato a rendere difficili i collegamenti con l’Italia. I già esistenti problemi di approvvigionamento si esasperarono, costringendo sempre più soldati italiani a razziare campi e fattorie locali e ad usare le proprie granate per pescare.

La scarsità di cibo contribuì anche alla nascita di un fiorente mercato nero, sul quale venivano venduti, sia da italiani che da francesi, prodotti rubati o sottratti ai normali canali di mercato. L’olio d’oliva schizzò quindi da 36 franchi al litro fino a 250, il vino da 10 a 100, le patate da 8 a 35, il formaggio fresco da 39 a 200 e la farina di castagne da 26 a 80. La Corsica iniziava ad assomigliare ad un castello sotto assedio, da prendere per fame.

In simili circostanze, le relazioni tra italiani e corsi non potevano che farsi sempre più tese. E la resistenza iniziò infatti ad alzare la testa.

In aprile si diffusero graffiti, volantini e canzoni che minacciavano esplicitamente gli italiani. “Tremate, oppressori”, recitavano alcuni. Oppure “Tutti alle armi corsi arditi: morte, morte ai nemici” e “Tra loro e noi è ormai lotta mortale fino alla loro capitolazione senza condizioni”. In maggio poi la prima manifestazione di massa anti italiana venne organizzata ad Ajaccio dopo la morte di un membro del Front National, Louis Frediani, freddato da una sentinella italiana durante il coprifuoco. Il giorno dopo, i negozi chiusero per lutto e 2.000 persone accompagnarono la salma, da seppellire a Ghisonaccia, fino alla stazione dei treni. Dalla folla si levarono grida di vendetta.

Da quel momento in poi le imboscate alle pattuglie, o gli attacchi a depositi e mezzi italiani, divennero più frequenti. Prima della fine del luglio 1943, 16 militari italiani vennero uccisi in Corsica e altri 7 feriti, contro i 5 morti e 15 feriti registrati nell’intera Francia sud-orientale, l’altra zona di occupazione italiana. I principali obiettivi degli attacchi erano camicie nere e carabinieri, particolarmente invisi alla popolazione locale perché più dichiaratamente fascisti, i primi, o incaricati di sorvegliare prigionieri politici, i secondi.

La repressione italiana però non tardò a farsi sentire. L’OVRA, l’Organizzazione per la Vigilanza e la Repressione dell’Antifascismo nata nel 1927, aveva sedi sia a Bastia che ad Ajaccio, nelle caserme Marbeuf e Battesti, ed aveva la mano pesante. Molti sospettati di essere partigiani, o di collaborare con loro, furono fucilati, imprigionati o uccisi durante azioni di repressione della resistenza. In tutto 110 notabili vennero internati in un campo di prigionia appositamente creato a Prunelli di Fiumorbo, che accolse fino a 44 reclusi, oppure invitati all’Isola d’Elba. E molti malcapitati sospettati di lavorare per la resistenza vennero seviziati impunemente. Almeno uno di questi, Louis Leca, morì così, urlando la sua agonia nella solitudine orrenda di una camera di tortura.

Il 30 agosto vi fu uno degli ultimi, terribili, episodi di repressione nell’escalation di violenza che aveva spazzato l’isola. Dei bersaglieri erano stati incaricati di fucilare alla schiena il partigiano Jean Nicoli. Prima dell’esecuzione però, questi sfidò i suoi carnefici urlando “Codardi! Non osate guardarmi in faccia”. I bersaglieri, confusi e forse imbarazzati, abbassarono le armi. Per un lungo momento parve che la sentenza di morte non sarebbe stata eseguita, fermata dal coraggio di quell’uomo. Ma questo sarebbe stato un affronto intollerabile per il comando italiano. Il Generale Magli intervenne quindi personalmente e rimpiazzò i bersaglieri con una pattuglia di carabinieri. Quando questi arrivarono, si avventarono su Nicoli con una furia animalesca e lo bastonarono selvaggiamente. Dopo averlo tramortito, qualcuno si sedette sul suo corpo riverso nel fango, lo prese per i capelli e gli segò via la testa con un pugnale.

Se mio nonno temeva di aver fatto un errore al momento dell’imbarco, ora ne era più che sicuro. Non c’era nulla di glorioso nel suo incarico e la pomposa retorica della scuola ufficiali suonava come un’imbarazzante ammasso di menzogne. Aveva da giorni un costante sapore amaro in bocca che non riusciva a sputare via. I corsi li odiavano. L’esercito italiano aveva collezionato solo disfatte. E l’occupazione dell’isola era diventata un groviglio nauseante di fame, timore di imboscate, ritorsioni e violenza insensata.

Pensava a Ginetta e al suo sorriso. Pensava alla ragazza di Trieste, che gli aveva messo la sua vita tra le mani. Quelle mani che l’avevano respinta e che ora imbracciavano un fucile. Non le riconosceva e quando le guardava gli veniva voglia di urlare. Che cosa diavolo ci faceva lì?

L’unica nota positiva di quei giorni convulsi, di cui si rallegrò anche mio nonno, fu il salvataggio della comunità ebraica locale. Non aveva indossato la divisa per assecondare un sadico capriccio nazista e tormentare inutilmente persone innocenti.

Ad occupazione italiana conclusa, i nazisti avevano subito iniziato a fare pressione affinché tutti gli ebrei residenti in Corsica e nella Francia sud orientale venissero internati. Il 14 dicembre 1942 le autorità italiane avevano quindi costituito un organismo apposito, guidato dall’OVRA, per gestire la cosiddetta questione ebraica. Una misura che si rivelò essere di facciata. Già qualche giorno dopo, il 29 dicembre, il Generale Trabucchi, capo di stato maggiore della 4° armata che aveva occupato la Francia e futuro comandante partigiano, aveva infatti chiarito che “il Comando Supremo ha ordinato di interdire ai prefetti l’internamento di persone ebree”. Ed il 14 gennaio 1943, il Console Generale d’Italia in Francia, su ordine personale del Ministro degli Esteri Galeazzo Ciano, aveva reso noto il rifiuto delle autorità italiane di imporre la menzione “ebreo” sulle carte d’identità.

Molte furono le motivazioni che giustificarono le scelte del governo e dei comandi italiani, inestricabili tra loro e probabilmente tutte vere allo stesso tempo. In primo luogo, nonostante le leggi razziali del 1938, il fascismo non era caratterizzato da quella radicata matrice antisemita che era una delle componenti di base del nazismo. In secondo luogo, gli italiani volevano dimostrare una certa indipendenza dai tedeschi e marcare la propria sovranità sul territorio francese di cui rivendicavano il possesso da tempo. Inoltre, molti personaggi altolocati della vita pubblica italiana, fascisti inclusi, avevano parte della loro fortuna negli Stati Uniti ed erano quindi sensibili alle pressioni americane, effettuate anche tramite il Vaticano, in favore degli ebrei. Infine, si era forse fatta strada la consapevolezza che l’ondata nazista stava rientrando e che la protezione degli ebrei sarebbe stata un’utile moneta di scambio in vista delle inevitabili negoziazioni di pace con gli Alleati.

Giuseppe Bastianini

Chiaramente l’atteggiamento italiano non venne ben accolto. Incalzato da Himmler, nel febbraio 1943 il Ministro degli Esteri nazista Ribbentrop si recò di persona a Roma per protestare con Mussolini. Il quale inizialmente cercò di resistere alle sue pressioni e poi cedette rimuovendo Ciano e autonominandosi nuovo Ministro degli Esteri. La guida di quel dicastero venne però di fatto ceduta all’ex vicesegretario del Partito Nazionale Fascista Giuseppe Bastianini, nominato Sottosegretario agli Affari Esteri. Una delle prime azioni di Bastianini fu di informare i tedeschi, il 20 marzo, che gli italiani avevano conferito a Guido Lospinoso, fascista di provata fiducia, il ruolo di ispettore generale della polizia razziale per dirimere la spinosa questione ebraica.

Guido Lospinoso

I nazisti, che per fortuna di tutti non avevano ancora capito con chi avevano a che fare, si fidarono. Perché Lospinoso si rivelò un fine maestro di procrastinazione e doppio gioco.

In primo luogo, Lospinoso ritardò la sua partenza e raggiunse Nizza solo all’inizio di Maggio. Qui arrivato, incontrò subito Angelo Donati, ebreo italiano e ricco uomo d’affari che si era già adoperato per la difesa degli ebrei nella Francia occupata. Lospinoso confessò alle sue carte di averlo trovato “persona distinta e piena di buona volontà”, che avrebbe potuto fungere da utile “trait d’union con la comunità ebraica”.

A quel punto iniziò il suo paziente lavoro di insabbiamento, con la pazienza di un ragno che tesse la sua tela. Minimizzò i suoi contatti sia coi tedeschi che con le autorità francesi. Lasciò che le liste degli ebrei da internare vagassero per gli uffici, smarrendosi. Promise ai nazisti di cooperare e poi non mantenne la parola data. E quando qualche arresto divenne inevitabile fece in modo che gli ebrei venissero radunati in località alpine prestabilite senza che fosse fatto uso di violenza.

Angelo Donati

I tedeschi, esasperati, cercarono un bersaglio da colpire per sbloccare la situazione e lo individuarono in Donati, che venne descritto come il portavoce dei potenti interessi finanziari degli ebrei italiani, capaci di bloccare l’azione del regime fascista. La Gestapo progettò quindi di rapire Donati con un colpo di mano, ma dovette infine desistere, per timore di contraccolpi diplomatici con l’Italia.

In Corsica, un piccolo gruppo di 57 ebrei di età compresa tra i 18 e i 60 anni venne radunato nella parte settentrionale dell’isola e internato nel complesso scolastico della cittadina di Asco. Il campo venne aperto il 15 maggio 1943. Tuttavia la situazione non divenne mai pericolosa o proibitiva: gli ebrei non potevano lasciare il villaggio ma vennero lasciati liberi di cucinare, ricevere visite, interagire coi locali e ottenere soldi per le loro spese correnti. E soprattutto non vennero deportati.

Nelle sue testimonianze, Lospinoso negò sempre che Mussolini lo avesse appoggiato, anche solo tacitamente. Nel suo racconto, il salvataggio degli ebrei fu quindi esclusiva iniziativa dell’esercito e delle autorità italiane, nonché dei cittadini personalmente coinvolti nei drammatici eventi di quei giorni.

A guerra terminata, Bastianini venne assolto da ogni accusa per il ruolo giocato all’interno del regime fascista. Donati divenne un diplomatico italiano e ricevette nel 2004 la medaglia d’oro al merito civile alla memoria. Lospinoso, dopo essere stato sospettato di antisemitismo, venne riconosciuto innocente grazie alle testimonianze raccolte e nominato questore di Udine. Ma nessun riconoscimento ufficiale gli giunse mai dalle autorità italiane: le sue azioni restano a tutt’oggi quasi sconosciute. Secondo varie stime, circa 25.000 ebrei residenti nella zona d’occupazione italiana vennero salvati dai campi di sterminio nazisti grazie all’azione di questi e altri italiani.

L’estate del 1943 fu un periodo buio per mio nonno, quasi senza speranza. Invece, tutto stava per cambiare. Ancora non poteva saperlo, ma presto avrebbe ricevuto il suo battesimo del fuoco proprio a fianco di chi, in quel momento, lo avrebbe volentieri guardato solo attraverso il mirino di un fucile. La sua opportunità di riscatto, ormai, era dietro l’angolo.

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